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Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2019
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Dicono che Carlo Emilio Gadda sia uno "scrittore barocco". Lo dicono i lettori che si soffermano sull'architettura della sua prosa: sulle fughe di corridoi e ingannevoli trompes l'oeil edificate dal suo lessico tutt'altro che familiare, sulle decorazioni linguistiche che, invece di ornare, coprono il senso di ogni cosa, rendendo tutto trionfalmente confusionario. Credo che lo dicesse anche Carlo Emilio Gadda di se stesso, che era uno "scrittore barocco". Eppure, guardando le pagine della Cognizione del dolore si comincia a ascoltare un'altra musica. Ci si accorge, quindi, di essere di fronte non a una chiesa barocca, ma semmai a un brano jazz. Uno di quei brani lunghi, interminabili, che non sai mai quando finiranno e che poi finiscono di colpo, anche se non finiscono mai, perché ricominciano da capo, in un'altra forma. È difficile seguire la musica jazz. La suonano in locali bui e fumosi, che puzzano di birra sgasata e di whiskey fortissimi. L'orchestra non sembra mai amalgamata. Il pianista è sempre molto nervoso: si agita e si dimena, e suda parecchio sui tasti bianchi e neri. Il bassista sembra molto preoccupato, ha dei crucci che non lo lasciano in pace, lo atterriscono, lo immobilizzano, a eccezione delle abili dita, agilissime anche quando paffute e gonfie di bagordi e di esperienze lontane. Il batterista se la ride, perché tanto lo sa che gli altri lo sanno che è lui a comandare. Spesso c'è una cantante che sale e scende dal palcoscenico come le pare e piace a lei, comincia a cantare a metà brano, se solo i brani jazz avessero un inizio e una fine e quindi anche un punto a metà, poi se ne va a bere un sorso di martini dal bicchiere triangolare con l'olivetta verde dentro, poi ritorna, e canta come se sbadigliasse, sbadiglia come se non le importasse nulla, nemmeno di dove sia il microfono, e è quasi sempre bionda ma quasi mai bionda naturale. La Cognizione del Dolore è così: difficile da seguire e da capire, se non si ha l'orecchio abituato. Proprio come la musica jazz. L'armonia di questo romanzo è umorale e ciclotimica, si disfa e si ricostruisce senza rigore, si muta al ritmo con cui lo schizofrenico viene impossessato dalle sue personalità: sembra tutta una fuga, tutto un contrappunto. La melodia è indecifrabile, smarrita negli infimi egoismi dei singoli strumenti, che si rincorrono ma non si acchiappano mai, perché, pare, in fondo vogliono correre da soli, ognuno per la propria strada. Poi, dopo il coro incomprensibile della prima parte, suonata con l'italiano, diversi dialetti e interi periodi interamente in spagnolo, si intromette una seconda parte come uno squarcio di malinconia. Il ritmo si fa più lento, il colore più cupo, la cantante bionda diventa Nina Simone e prende il controllo di tutto, con la sua voce calda e malinconica che riverbera per il locale fumoso. Ci opprime, quella voce notturna e desolata, ci commuove, fino a quando non si spezza in mille rivoli di vibrato che scappano via veloci come piccoli fiumi che si rifiutano di confluire in un unico mare. È così, dunque, che Gadda descrive il dolore, scrivendolo come note musicali annotate con l'inchiostro viola brillante e rosso carminio, su un pentagramma ideale e idealmente infinito, che sale verso l'altro e si attorciglia, come una spirale illimitata, perché il dolore è quella spirale che ti imprigiona sempre e non ti lascia mai, la musica di sottofondo delle tue giornate, persino di quelle sognate. Cos'è, dunque, La Cognizione del Dolore? È un romanzo incompiuto, che precipita fino a schiantarsi su una poesia?, intitolata Autunno, come la stagione più dolorosa e colorata, la più jazz. È, tanto per cominciare, un romanzo? Sono degli appunti sparsi? Oppure, come direbbero gli anglofoni, un character study? Sì e no. Non si può dire nient'altro. Non si può rispondere a queste domande in maniera chiara e precisa. Non ha senso insistere. Di fronte al jazz, così come di fronte al dolore, bisogna solo chiudere gli occhi e non pensare più. «Quella, che il bimbo pativa, non era la festa di una gente, ma il berciare d'una muta di diavoli, pazzi, sozzi, in una inutile, bestiale diavolerìa... Si trattava certamente, pensò adesso di sé il figlio, di una infanzia malata. L'uomo tentò di riprendersi da quel delirio. Consentì ad aggiudicarsi un ritardo nello sviluppo, una sensitività morbosa, abnorme: decise di essere stato un ragazzo malato e di essere un deficiente. Così soltanto poteva stabilire una relazione fra sé e i suoi concittadini.»
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