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Anno edizione: 2010
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Si imparerà lo spagnolo, il castigliano del Sud America, pur di ascoltarla. Si parlerà la sua lingua pur di risponderle. O ci si ritroverà nella propria uno scrittore pur di ritrovarla e raccontare di lei. Lei si chiamava Boto e "di botto me ne sono innamorato" aveva scritto il narratore su un biglietto e appeso al muro ad altezza d'occhi, accanto al letto, il giorno che l'aveva incontrata. Immediatamente preso da lei, pronto a mettersi in gioco in quell'amore. Ignaro che quel gioco di parole sarebbe presto suonato come un brutto scherzo: che il botto sarebbe stato micidiale, definitivo e fatale più del primo colpo di fulmine. Era accaduto a Roma. Boto era arrivata a Roma dal cielo, planata su un aereo partito da Buenos Aires per portarla in salvo, per distoglierla per sempre dall'incubo vissuto nella sua terra. "Destierro" è la prima parola di cui, a costo di scavare con le unghie, si dovrà sondare il significato. "E' il termine appropriato nella tua lingua per indicare la sorte che hai subito". Cioè lo sradicamento e l'esilio. L'allontanamento senza ritorno. Lo strappo che non si richiude nemmeno con il lavorìo delle radici rimaste sospese sul vuoto, a intrecciare i ricordi ("gioco mentale della solitudine"), a nascondere "il rebus del silenzio", ad allacciare e annodare i mille particolari raccolti per aggrapparsi a un altro suolo e a un'altra vita con quelli lasciati dall'altra parte del mondo. "Tutto ciò che rivedo a Roma lo confronto con i ricordi lontani": cappuccino e cornetto al caffè di via dei Giubbonari con il café chico e le medialunas di Tucuman. La calca del mercato a Campo de' Fiori con le spinte dell'agguato teso dai militari in una notte d'agosto di tanti anni fa. I reperti e le rovine dell'antichità latina con le tracce della preistoria latinoamericana, della civiltà incaica distrutta per sempre e della tua città distrutta tuttora dai grupos de tarea che colpiscono duro con la dinamite per radere al suolo sedi sindacali, associazioni culturali, presunti covi di sovversivi... La radio -un Brionvega rosso - che dava una nota di colore e musica a muri spogli, pavimento di pietra, mobili di legno naturale nel nido nuziale di via del Boschetto (ma "Boto era il mio luogo") e segnava -con design vintage- una data inconfondibile sul calendario degli eventi: gli anni Settanta degli arredi di plastica in Italia e della giunta di Vilas in Argentina. Boto, strappata al suo luogo per diventarne un altro, disegnava "un tracciato fisso sulla mappa della città". E portava su di sé la traccia indelebile di una cicatrice, l'artigliata di un Lupus (a dirla tutta, del "lupus erytematosus sistemico"): la malattia dal nome feroce che dopo quel primo graffio inciso sul petto avrebbe assestato il colpo mortale. Il narratore non lascia però alla bestia il gusto della zampata finale. Restituisce a Boto la parola e l'alterna, raccontando, alla propria voce. Riconosce nei "ghirigori di parole" il disegno di una storia dove, estratta dalla sua sorte di "destierro", ritrova ed è il suo luogo colei che l'aveva subita. Ritrova il proprio luogo anche l'autore: "Boto era il mio luogo" aveva pensato trent'anni fa. PUÒ appunto ripeterlo adesso, presentandosi, economista sessantenne, al suo stupefacente debutto di scrittore. (Alessandra Iadicicco)
Recensioni
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