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Sin troppi gl'antecedenti citabili del filone: anzitutto l'ottimo "Killer - Diario di un assassino" del '96, a ritroso "Schegge di paura" sempre del '96, "Analisi finale" del '92 sempre con Gere, e poi qualsiasi De Palma/Hitch o Polanski. Ma qui è interessante il tragitto teorico dello stesso Soderbergh. Nel 2005 con "Bubble" denunciava l'autoinganno e l'autosuggestione psiconevrotici, l'identica self-deception di cui è vittima il Matt Damon di "The Informant!" nel 2009. Il colpo di scena ora, il vero twist nella filmografia del cineasta, consiste nella rinuncia all'inconsapevolezza e all'irresponsabilità per il male compiuto. Ci scusi, Arendt (RIP), però forse esso non è poi così banale. Omicidio a fine di lucro progettato, architettato, costruito con quasi mezzo decennio a disposizione; d'altronde, magari scavando più a fondo nella vita delle due protagoniste (di cui vediamo solo qualche flashback), spunterebbero fuori di nuovo motivazioni non tanto consce, intenzionali e deliberate: patteggiamo allora per un "male non così semplice", come del resto vale per qualunque altra cosa. Soderbergh si sveglia dal proprio sonnambulismo dogmatico, dalla paramnesia buonista, per abbandonare la caccia all'eventuale eziopatologia psichica e focalizzarsi sul danno effettivo, oggettivo, patito da Jude Law, capro espiatorio designato e assai poco consenziente. Mantiene lo stile asettico e distaccato di "Contagion", e lì era enfatico rispetto al tema della pellicola. Invece stavolta l'approccio chirurgico è quello del "freddo gelido che brucia più del fuoco", modo alquanto raffinato sia per identificarsi e disidentificarsi coi vari personaggi prima e dopo la svolta del plot, sia per descrivere la nostra agghiacciante natura. Mauro Lanari
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