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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2014
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Titolo originale: The Sorrows of an American Non girare la testa. Continua a guardare la ferita fasciata. E’ da lì che la luce entra in te .” Le parole di Rumi, il poeta persiano del XIII sec. , che Hustvedt sceglie come prologo di Elegia per un americano, riassumono in poche righe l’essenza del suo libro: la sofferenza non si risolve con la fuga, bensì affrontandola, elaborandola, cercandone le origini anche se il processo è doloroso. La sofferenza cui allude Hustvedt è quella psichica, non solo rappresentata dal disagio mentale dei pazienti del Dr Erik Davidsen, psicoterapeuta di New York, ma anche e soprattutto dal lutto per la scomparsa di un famigliare. Tanti personaggi , tutti sofferenti. Chi di depressione (Erik stesso), chi di temporanee assenze di memoria (il padre di Erik), chi di stati ansiosi (Inga, la sorella di Erik),chi di PTSS (sindrome post traumatica) provocata dall’aver assistito al crollo delle Torri l'11 settembre 2001 (Sonya, la figlia di Inga). E’ evidente la fascinazione di Hustvedt per la malattia mentale e la psicoterapia – in un’intervista ha spiegato che insegna tecniche della scrittura in un ospedale psichiatrico di New York dove è giunta ad apprezzare la totale assenza di mediazioni e di finzioni che governa i rapporti con i malati mentali. E tutti i personaggi sono alla ricerca di un nuovo equilibrio dopo aver subito una perdita. Qui si inserisce anche una componente autobiografica, perché le memorie del padre che Erik legge nel suo personale processo di elaborazione del lutto, sono tratte dal diario originale del padre della Hudsvedt, figlio di emigrati norvegesi stabilitisi nel Minnesota e sopravvissuti alla durezza di quella terra, alla depressione e alla povertà. La memoria è un altro tema che necessariamente si associa al lutto. Per Hustvedt la memoria non può che essere parziale: ogni famiglia nasconde dei segreti, nel senso che è consapevole dell’esistenza di buchi neri, di non verità, che, rimanendo irrisolte, si tramandano di generazione in generazione come grumi di ansia. Per questo sia Erik che Inga si adoperano molto – fin troppo, per essere verosimili – a scandagliare il proprio passato alla ricerca delle tessere omesse o sostituite con versioni di comodo. La narrazione è complessa, perché Hustvedt non è immune a quello che io giudico un vezzo narrativo che l’accomuna al marito Paul Auster, e cioè l’inanellamento di molteplici storie che si sviluppano su diversi piani temporali e che sovente fanno perdere il filo originario del racconto. O quantomeno la sua filosofia di fondo. Non è neppure immune a una certa inclinazione, propria dell’intellighenzia newyorkese, a dipingere il proprio mondo estremamente elitario come se si trattasse del mondo di tutti. Ne scaturisce, almeno per me, una lettura che forse può provocare qualche interesse, ma certamente poca empatia. vera (www.panchinedimilano.com)
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