Nel 1941, alle soglie della guerra che avrebbe spezzato anche la sua vita, Irène Némirovsky, traccia il profilo di un preciso tipo umano: arrivista, senza scrupoli, faccendiere piccolo borghese, un lupo avido di piacere, cinico e disincantato. La parabola di Bernard Jacqueline, tuttavia, la sua trasformazione, inizia oltre vent'anni prima, nel mezzo della Grande Guerra, dove la Némirovsky apre il sipario di questo piccolo gioiello (appena 233 pagine), I falò dell’autunno. Sono poco più che ragazzi Bernard, Thérèse, Martial, Renèe quando il primo conflitto mondiale irrompe nella loro giovinezza, sbriciolando i sogni, i progetti per l’avvenire, obliterando l’ingenuità. Martial fa appena in tempo a sposare Thérèse e dopo soli due mesi al fronte muore per salvare un commilitone. Anche Bernard si distingue per l’impegno eroico, ma quando la guerra finisce, gli anni di trincee, i sacrifici, il costante olocausto della vita umana, tutto gli appare misero e gretto: non è morto onorevolmente in battaglia; non è morto di stenti e di privazioni e nemmeno si è arricchito come ha fatto Raymon Détang, marito di Renèe. In altre parole si sente un niente, una nullità che nonostante abbia combattuto per la Francia, la Francia ha dimenticato tuffandosi nei lussi e nei lustri dei Roaring Twenties, una menzogna astratta ma lucrativa per chi ha dato un morso a quella mela. E perché, allora, non può essere lui, non può essere Bernard ad assaggiare a sua volta il frutto proibito? Chi glielo impedisce? È la perdita dell’innocenza, il sacrificio della coscienza, il colpo ferale alla moralità e integrità di un popolo che la Némirovsky mette a nudo, cercando – forse – una reazione di causa-effetto per il precipizio morale e umano che fu la Seconda Guerra Mondiale, assumendo la Francia a metafora universale della cecità, del sonno della ragione che favorì l’attecchirsi in Europa dei più cupi nazionalismi, il sorgere di un’epoca che lungi dall'aver appreso la lezione del ‘14 - ’18, si precipitò in una follia persino peggiore.
I falò dell'autunno
Come molti altri della sua generazione, dalle atrocità della Grande Guerra il "piccolo eroe" Bernard Jacquelain è stato trasformato in un "lupo" avido di piaceri e di denaro, cinico e disincantato, e unicamente attratto dal mondo luccicante dei faccendieri, degli affaristi, dei politici corrotti. A niente servirà la presenza dolcissima della giovane moglie: lui ha voglia di avventure, e di quella mediocre vita piccoloborghese non sa che farsene. Ma il fuoco di molti incendi verrà a devastare i campi della sua vita: un amore sordido, una débàcle finanziaria, un'altra guerra, un lutto atroce. Solo allora Bernard capirà che cosa vuole davvero - e saprà che da quel cumulo di ceneri può nascere una vita nuova.
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Autore:
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Traduttore:
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Editore:
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Collana:
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Anno edizione:2016
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
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Antonio Piccinni 10 maggio 2018
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Un bel libro, questo “I falò dell’autunno”, della Nèmirovsky. Descrive il periodo della prima metà del ventesimo secolo, con un racconto dalla trama semplice ed efficace nel quale si intrecciano corsi e destini di due famiglie francesi e dell’immediato entourage. Decenni intensi, senza pausa, nella tragicità delle due guerre e nel periodo di mezzo, con il brulicare di un’umanità pulsante dopo i lutti e il dolore. Uomini e donne, sopraffatti dalla morte e dalla tragedia incombente, ora indaffarati, un poco schizofrenici, pronti a gustare il calice della vita senza avvertire che è solo una breve pausa prima di una prova ancora più terribile. Un testo scorrevole, sia nella prosa descrittiva che nelle parti di dialogo, ben comprensibile e senza eccessi o ricercatezze stilistiche. Molto efficace la descrizione delle scene dal fronte di guerra. Paiono quadri dalle tinte oscure, imbrattati dal rosso del sangue, con le lunghe marce in ritirata, il fango in cui sprofonda Bernard, dove affoga la vita. I cumuli di cadaveri ai margini del percorso, la morte in agguato ad ogni istante: ovunque pezzi e brandelli di uomini e d’anime. Si apprezzano alcune felici intuizioni nei dialoghi. Tra i tanti quello tra i genitori di Bernard (la notte, a letto, dopo il diverbio con il figlio): la rabbia del padre e le preoccupazioni materne quasi infantili in forte contrasto con la realtà di un figlio uomo e scavato, ferito dalla guerra. L’interloquire tra loro chiamandosi “papà” e “mamma” in un quadretto domestico quasi irreale dove per un attimo sfuma la scenografia di morte che offusca il quotidiano. Piacevoli i passaggi nostalgici (i falò dell’autunno, a fine romanzo) e associazioni sostantivo-aggettivo che accarezzano la poesia (colpisce, nella descrizione di Renée: “… ma con la bocca già segnata da piccole rughe amare”). Un lungo percorso nella perenne lotta tra il bene e il male, tra speranza e bieca disperazione, nel succedersi dei tempi di guerra e dei tempi di frenesia, di morte e atrocità e brevi pause, come estive stagioni di cicale e svolazzare di sogni di gioie, o meglio ancora di roventi crude passioni. Ma ancor meglio raffigurata dai due personaggi principali e dal loro vivere: Thérèse e Bernard. Sacro e profano, angelo e demone, dedizione e dissolutezza, purezza e impudicizia. Thérèse, timorata e fedele, attaccata alla tradizione, ai valori. Mentre rammenda abiti e vive la semplicità della sua dignitosa esistenza, cercando di affrancare il compagno, l’uomo della sua vita, con l’arma meno vistosa ma alla fine la più potente: l’amore. Umiliata, abbandonata, ma alla fine, tra tanti sconfitti, è quella che meglio esce dal calvario del vivere. Bernard, incorreggibile, impenitente, facile alle lusinghe di una vita di apparenze e ricchezze materiali, ma senza sostanza. Che passa dall’ardore giovanile a due conflitti, due illusori miraggi di lussi e effimere felicità, due pesanti cadute, intervallate dal momento del matrimonio. Per poi spiaggiarsi, naufrago, ma cambiato, maturato, migliore, tra le braccia di Thérèse. Il conflitto eterno tra bene e male, con l’epilogo proprio come nel nostro vivere. Vince il bene, ma non è l’apoteosi, lieto luminoso fine di un film o di un romanzo. Vince Thérèse, il bene, ma con la sua sfiorita bellezza e gioventù, con le cicatrici della vita. Certa sì che “ritornava.. finalmente, suo, soltanto suo” ma con quel sapore un poco malinconico, quel retrogusto di nostalgia e di tempo perduto per sempre …