Annick Emdin è giovanissima – 29 anni – ed è già comunque una “veterana”, dal punto di vista del curriculum letterario e della tecnica narrativa. Non la conosco – l’ho vista per la prima volta (e ultima finora) il 19 ottobre, ad una presentazione del suo secondo romanzo, Io sono del mio amato, appunto; e non me la sento di provare a ricostruire il suo curriculum, il quale al momento mi suscita un interesse molto relativo: il lettore potrà facilmente farlo da solo, se ci tiene, grazie alle informazioni che ormai ognuno di noi può procacciarsi in rete. Io sono del mio amato è l’ultimo libro di Annick Emdin ma per me è il primo suo che leggo, e abitualmente tendo ad assumere un primo approccio “strutturalista” sia all’arte in generale sia alla letteratura in particolare; cioè, mi interessa innanzi tutto il risultato a se stante e quasi nulla – in un primo momento, ripeto – chi l’abbia prodotto, in quali condizioni particolari e via dicendo. Giacché mi ha molto piacevolmente sorpreso la pubblica presentazione del romanzo cui ho assistito nel tardo pomeriggio del 19 ottobre, al pisano Teatro Nuovo, ho acquistato Io sono del mio amato alla bancarella allestita all’ingresso e me lo sono goduto poi a casa quasi d’un fiato: ora posso e devo dire che sia i quattrini sia il tempo che vi ho impegnato sono stati spesi benissimo; anzi, ci ho guadagnato, e tanto. Non vorrei addentrarmi nella trama del romanzo di Annick Emdin, che il presente lettore di questa recensione e futuro lettore – spero – del romanzo stesso potrà poi godersi da solo. Basti dire che l’andatura del libro si basa sul sapiente alternarsi di due situazioni vissute in due tempi diversi, fino a quando esse non confluiscono in uno spazio e un tempo comuni, verso la fine del romanzo: due scenari che corrispondono a spezzoni della vita di alcuni ebrei ucraini, ai tempi della seconda guerra mondiale, da una parte; e, dall’altra, ad altri spezzoni della vita di alcuni dei medesimi, dei loro discendenti e di alcuni altri nuovi personaggi, nell’Israele della metà degli anni ’90 del secolo scorso. Il mestiere dello scrittore “scafato” si nota ad ogni pagina, anche se la giovane Annick Emdin non tende mai ad un’esibizione autotelica della propria maestria: la vivacità quasi cinematografica con cui l’autrice abbozza azioni e situazioni (non è un caso che vari commentatori si siano già riferiti, prima di me, alle straordinarie potenzialità di questo romanzo come punto di partenza per un’auspicabile sceneggiatura filmica); il ricorso frequente, alla fine dei capitoli, al cliffhanger per troncare l’azione all’improvviso, lasciando il lettore col fiato sospeso; il ritmo incalzante dei polisindeti e di altre anafore non meno incisive – tutti questi artifici, e altri, servono (e come!) a stuzzicare le capacità immaginative ed empatiche del lettore, e non solo – e neanche soprattutto – a sbalordirlo. Nonostante le straordinarie capacità affabulatorie di cui dà ampie prove, l’autrice si attiene a un linguaggio semplice, corrente, non contaminato né da volgarità né da preziosismi; e lo fa apposta, sono sicurissimo che il lessico forbito non le fa difetto. Questo accentua l’aura fiabesca che sul romanzo aleggia: sembra un po’ una fiaba, sì, ma non una fiaba di quelle moderne, buoniste; piuttosto una fiaba complessa, agrodolce, a tratti crudele, insomma, come quelle dei Fratelli Grimm. Astraendo ora dalle sue spiccate qualità letterarie, il romanzo di Annick Emden sembra nascere innanzi tutto da un profondo desiderio – utopico, forse, purtroppo (e poi chi lo sa, speriamo di no!) – di arrivare ad una “conciliazione degli opposti”: mettere d’accordo gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, gli ebrei militaristi e quelli pacifisti a oltranza, il Tanàkh e la Bibbia cristiana, gli haredim e gli atei (o almeno gli agnostici). Ho voluto accennare – alquanto cripticamente, allora, lo riconosco – a tale atteggiamento programmatico già nel titolo della presente recensione, con quel riferimento alla “quadratura del cerchio”: non mi pare fuori luogo, infatti, parlare di quadratura del cerchio a proposito delle dicotomie elencate nel periodo precedente; oppure a proposito dell’immagine, di forte spessore simbolico, di uno dei giovani ebrei in fuga dai nazisti, costretto – in un modo blasfemo ma giustificato dalla necessità – ad attaccare il suo coltello all’avambraccio, servendosi per questo dei tefilim. Il giorno prima del mio primo contatto con Io sono del mio amato, e cioè il 18 ottobre, su «La domenica del Sole-24 ore» c’era un articolo di monsignor Gianfranco Ravasi, “Due”, che mi ha particolarmente colpito. Iniziava con una corta citazione di Marco Aurelio (che qui accorcio ancor di più): «Siamo in questo mondo per aiutarci l’un l’altro come piedi, mani, palpebre, come i denti di sopra e di sotto.» E finiva con un verso di Paul Eluard: «Noi verremo alla meta non a uno a uno ma a due a due». Nel romanzo di Annick Emdin i personaggi si stagliano sempre in gruppi di due, di tre, di quattro o di più: sempre il multiplo, mai lo stirneriano unico. L’unico uno del libro, solo, isolato, “spaiato”, è un lupo nero – una belva solitaria che finisce ammazzata e sparisce subito dalla storia: sebbene uno dei fuggiaschi ebrei abbia caricato il lupo morto sulle spalle per usarlo come una sorta di “moneta di scambio”, il lupo viene “scaricato”, viene cancellato all’improvviso dal testo, e non si sa che ne abbiano poi fatto... Scaricato, sì, e non a caso, credo; perché in questo romanzo (e nella vita reale, mi sa) l’individuo isolato diventa invisibile, svanisce e sparisce del tutto, come uno sbuffo di fumo disperso dal vento. Per non rimanere isolati, e dunque condannati a una morte meschina e prematura, bisogna mettersi d’accordo con gli altri, anche con i nostri opposti: basta che non si tratti o di nazisti o di lupi solitari. È la caratteristica noachita per eccellenza: in effetti Noè questa capacità ce l’aveva già iscritta nel suo stesso nome, che in ebraico vuol dire “accomodante”, “accondiscendente”. Vivere vuol dire convivere, vivere con gli altri, ed implica una sorta di tendenziale, velleitaria, eternamente incompiuta quadratura del cerchio. Si sa che la quadratura del cerchio è un’utopia matematica, che si tratta di un problema di impossibile risoluzione; ma mi pare che l’autrice (come me) creda ai miracoli, o almeno a un certo tipo di magia: non in ambito matematico, di certo, ma nella letteratura e nella vita ci si può sempre provare a far quadrare il cerchio, a suscitare la mirifica scintilla, magari con qualche possibilità di successo – mettendoci l’amore. E scusate il parolone amore che può suonar stantio o dolciastro, ma Io sono del mio amato è un romanzo d’amore; e non dobbiamo avere remore quanto ad evocare e invocare l’amore, come d’altronde fa l’autrice quasi ad ogni pagina (passi l’esagerazione), senza cadere per questo in stucchevoli sentimentalismi. Ed in esso risiede, credo, il messaggio fondamentale di un romanzo da leggere e rileggere, da tradurre, da trasporre al cinema, da raccomandare a chiunque – come io nel mio piccolo sto provando a fare. Arlindo J. N. Castanho
Io sono del mio amato
In un coinvolgente alternarsi di passato e presente si dipanano le vicende di nonno e nipote, nel contesto della grande Storia e della piccola storia di una famiglia di ebrei osservanti, di volta in volta costretta ad affrontare una realtà multiforme, a constatare quanto complicati possano essere i rigidi precetti della religione e quanto sia necessario derogare alle norme dettate.
Gerusalemme, 1995. Nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim vive Levi Kogan, primo di sette fratelli, che ha sempre vissuto secondo le tradizioni e le norme religiose della comunità charedi per volontà di nonno Chaim, di cui è il nipote prediletto. Un giorno Levi fa un incontro che gli cambia la vita: Yael, una giovane soldatessa, lo salva da un attentato e il ragazzo, colpito dall'episodio, sente forte l'impulso a impegnarsi nella difesa del suo Paese. E s'innamora proprio di Yael, tanto diversa da lui e dal suo ambiente: una ragazza che fuma, indossa pantaloni corti, non sa cucinare ma sa maneggiare le armi... Ma seguire il cuore vuole dire essere espulsi dalla comunità charedi e dalla propria famiglia; soprattutto significa deludere nonno Chaim, che Levi stima più di chiunque altro. E così, le scelte del ragazzo sono messe a confronto con il racconto di un'altra vita, una vita segreta, quella di Chaim che inizia in una sperduta cittadina ucraina nel 1941, il giorno del suo matrimonio. Durante la celebrazione, Chaim non può immaginare quanto il suo destino verrà sconvolto di lì a poco. In un coinvolgente alternarsi di passato e presente si dipanano le vicende di nonno e nipote, nel contesto della grande Storia e della piccola storia di una famiglia di ebrei osservanti, di volta in volta costretta ad affrontare una realtà multiforme, a constatare quanto complicati possano essere i rigidi precetti della religione e quanto sia necessario derogare alle norme dettate.
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Anno edizione:2020
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