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Vi sono alcuni romanzi che sono ambientati in uno spazio e in un tempo non ben precisati e che ho amato moltissimo anche grazie a questa caratteristica, della quale subisco un fascino particolare: penso al “Castello” di Kafka, ad alcuni libri della Ortese (tra i miei preferiti) come “L’Iguana”, o “Il porto di Toledo” (una Napoli tra le guerre trasfigurata in una completamente immaginaria Toledo), oppure a “Dhalgren” e la sua città di Bellona nel cuore degli USA, di S. Delany (quest’ultimo viene considerato generalmente “fantascienza”, ma ciò è opinabile), libri che hanno ben poco in comune tra loro (e anche con questo), ma che mi lasciano incantato innanzitutto per questa atmosfera un po’ vaga, spesso sconfinante nell’onirico, in cui si colloca la vicenda. Qui è uno stato, forse vicino al Baltico, incuneato tra Russia e Germania, dove si parla una lingua inventata da Nabokov stesso che porta forti eco di tedesco e di slavo, e dove l’epoca, vagamente moderna per la presenza di treni e automobili (ma nulla di più tecnologicamente particolarmente più avanzato), è assolutamente ininfluente. Le divise militari e il risonare di tacchi degli stivaloni militari sembrano spesso costumi da operetta. Il clima è quello di una Germania agli albori del nazismo, ma potrebbe essere ugualmente quello dello stalinismo, o la Romania di Ceausescu. Altro non vi dico, leggetelo!
Dalle mani di Nabokov non può venir fuori una distopia qualsiasi, con semplici implicazioni politico-sociali oppure imbevuta di linfa autobiografica da intellettuale cacciato in tenera età dal proprio paese con tutta la famiglia. Sono inevitabili spunti di riflessione sul valore stesso della macchina sociale, sulla sua (in)sensatezza, sulle sue condizioni di possibilità. E così, al di là dei numerosi riferimenti all'URSS e ai mondi rovesciati dei dittatori paranoico-ossessivi, un po' per volta si comprende che l'argomento principale del libro è l'assurdità dell'obiettivo centrale di ogni sistema totalitario, ossia il congelamento del tempo (e del cambiamento) in un presente eternamente bloccato su se stesso. L'autore è chiaro: «Cercare di progettare il nostro domani utilizzando le informazioni fornite dal nostro ieri significa ignorare l'elemento fondamentale del nostro futuro: la sua totale inesistenza. Noi scambiamo per movimento razionale la corsa vertiginosa del presente verso quel vuoto» (p. 66), e la follia dei dittatori come quella dei suoi sostenitori sta proprio nel rifiuto di vedere quel vuoto inesorabile. Tutto il resto è conseguenza di questa cecità.
Fittizio lo Stato in cui vive il protagonista Krug, immaginario il Dittatore Paduk che lo governa, ma veri i sentimenti e le angosce che suscita il romanzo grazie ad una capace e talentuosa scrittura dell'autore. La prima parte del libro è preparatoria, presenta i personaggi, li descrive e li dispone sulla scacchiera ma è nella seconda parte che il romanzo riserva le sue rappresentazioni più fosche, drammatiche e laceranti, le pedine vengono mosse in modo tale che ognuno rappresenti esattamente la sua parte ricomprendo il ruolo universale e atemporale del carnefice e della vittima. Una condanna alla Dittatura e ai regimi assolutisti che prescinde dal tempo.JUNIO
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