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“Adelmo Farandola ha scoperto i vantaggi della solitudine da giovane, durante un lungo periodo di fuga tra i boschi (…). Erano anni di guerra, in cui le vallate erano battute da uomini incappottati che masticando parole incomprensibili mettevano in fila quelli che gli capitavano tra i piedi e li fucilavano senza tante storie. Era fuggito sui monti, Adelmo Farandola, come molti altri (…); ma lui si era isolato subito tra le malghe evacuate e le vecchie miniere celate dalle ceppaie senza mangiare per giorni (…). Non immaginava che gli sarebbe toccato rimanere nascosto per mesi” (p.55). C’è una baita isolata lassù in montagna lungo un vallone scosceso, brutto e pietroso. Vi abita un uomo che l’autore, per tutta la narrazione, chiama per nome e cognome: Adelmo Farandola. Adelmo Farandola, schivo e asociale, è talmente ostinato nel proteggere la sua estrema solitudine che questo modo di essere sfocia, con il passare del tempo, nella misantropia. Questa condizione lo fiacca sia nella mente sia nel fisico. La psiche confonde mondo reale e fantastico: “(…) la solitudine di anni confonde la realtà vera delle cose e quella sognata” (p.18). La cura della propria persona è inesistente, non lavandosi. E’ convinto, infatti, di affrontare meglio l’inverno con uno strato in più di protezione, che tiene compagnia come una seconda pelle: “Da molti mesi Adelmo Farandola non si lava, e lascia che il tanfo gli crei attorno un’aurea di colore. Placidamente gli si incrostano addosso il sudore con lo sporco, la terra portata dal vento, la polvere che si solleva nella stalla, i pollini che colorano l’aria in certi periodi dell’anno, i grumi di pelle morta. Un piacevole strato colloso, viene a formarsi su di lui, mese dopo mese, uniforme, di cui si accorge solo a momenti, quando il prurito lo ridesta da un imbambolamento e lo costringe a piegarsi e contorcersi per arrivare al punto in cui grattare. E’ diventato bruno, un calore di caligine e fango temprati dal sole” (pp.31-32). Scende in paese poche volte l’anno e solo per fare provviste, soprattutto in vista dell’inverno. Un giorno, mentre sta risalendo verso la baita, incontra un vecchio cane che, affamato e testardo quanto lui, rompe la sua solitudine diventando il suo fedele compagno, anche se non gli attribuirà mai un nome: “(…) non appartiene a nessuna razza, la lingua penzoloni, gli occhi strabuzzati di due colori diversi, le orecchie basse” (p.18). La solitudine assoluta, oramai, l’ha talmente logorato in profondità che comincia a dialogare, quotidianamente e più o meno amabilmente, con il cane, al quale ha dato anche una voce. L’ultimo episodio che gli farà perdere definitivamente il senno, minando irreparabilmente il suo già fragile equilibrio, è il ritrovamento, dopo una valanga, di un piede umano. Le radici del suo disagio cominciano da lontano. Da quando si ricorda di quei cavi dell’elettrodotto che passavano sopra il suo paese e che gli hanno ronzato sulla testa tutta l’infanzia giorno e notte: “Adelmo Farandola si è convinto da un pezzo che se qualcosa non va nella sua testa è per via di quegli anni passati sotto i cavi dell’elettrodotto. Sono matto, sono matto, si ripete allora, senza enfasi però, come fosse una normale constatazione, perché a qualcuno quei cavi dovevano pur toccare, e sono toccati a lui” (p.61). Gli anni traumatici della Seconda Guerra Mondiale hanno fatto il resto, rendendolo quello che è oggi: una persona psicologicamente fragile. “In quegli anni di guerra Adelmo Farandola ha imparato il conforto di parlarsi da solo e di immaginare le voci delle bestie e delle cose pronte a rispondergli. In quegli anni ha imparato a non sentire il freddo e a ignorare la fame, prendendo l’uno e l’altra a male parole, sfidandoli in interminabili tenzoni di retorica ed insulti” (p.57). La storia di Adelmo Farandola, tratta da un episodio cui è stato protagonista Claudio Morandini e definito da lui stesso trascurabile (un’avventuretta da niente), parla alle nostre coscienze. Ci commuove Adelmo Farandola: lo fa la sua pazzia quanto la sua solitudine, che lo porta a non riuscire più a esprimersi. Anche il titolo richiama l’idea di un uomo che ha ben presente nella mente alcune parole, ma non riesce a collegarle con una frase di senso compiuto. “A non parlare per tanto tempo fatica a far uscire le frasi, e ogni parola gli sembra difficile come uno scioglilingua. (…) avvezzo ai silenzi di mesi, ha perso la capacità di ascoltare, oltre a quella di esprimersi” (p.12). La tenerezza nei suoi confronti è tanta quanto la ripugnanza per gli stimoli olfattivi che la scrittura ci restituisce. Con uno stile essenziale e schietto e scene vivide al limite della crudezza, l’autore ci accompagna all’interno del dramma della solitudine e del disagio mentale. Temi presenti anche nella nostra società e che facciamo finta di non vedere perché ci creano imbarazzo: un libro senz’altro da leggere per riflettere.
Di sicuro non è un libro che ti lascia indifferente. È una storia "spigolosa" come il carattere del protagonista. Gli spigoli, si sa, sono infidi, fatti apposta per lasciarti un livido se ti avvicini con disattenzione. E, a questa storia, bisogna stare attenti: sembra semplice e magari anche un po' senza scopo ma, in realtà, è in grado di colpire alcune parti che vivono dentro ognuno di noi, quelle zone scure e poco frequentate che si esplorano invece nella disperazione della lotta alla sopravvivenza e nella difficoltà della confusione mentale.
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