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Se rimango incatenata alle righe dopo avere letto di Sarah Dunant "Le notti al Santa Caterina" (Neri Pozza), che nella fattispecie non è un hotel né un villaggio turistico (il quale esiste a Scalea - CS - e sicuramente anche altrove), bensì un convento benedettino di clausura, significa che sono in odore di vocazione? Tutto può essere e di doman non v'è certezza. Ma intanto certo è che: questo è un grande romanzo, l'autrice una validissima scrittrice e Massimo Ortelio un ottimo traduttore.
Un bellissimo romanzo, non c'è dubbio, l'atmosfera è sublime, i protagonisti sono magnifici, ottimamente caratterizzati e per questo memorabili. L'assenza di personaggi maschili, come ammette l'autrice stessa nelle note conclusive, potrebbe portare alla pazzia uno scrittore, ma dal punto di vista del lettore direi che il risultato è meraviglioso. Le prime tre parti sono eccezionali, la quarta forse poteva venire meglio, e per quanto abbia apprezzato il tenerissimo lieto fine (lasciateci sognare, almeno nella finzione!), l'ho trovato un po' confuso, quasi che l'autrice avesse poco tempo per scriverlo. Ancora complimenti al traduttore, il cui lavoro ho già avuto modo di apprezzare in altri romanzi Neri Pozza, perché in buona parte è merito suo se il romanzo scorre in modo così splendido, coinvolgente e commovente fino alle lacrime. Sarah Dunant ci regala così un altro piccolo capolavoro, e devo dire che la Ferrara della controriforma mi è piaciuta persino di più della Firenze cinquecentesca della nascita di Venere. Quello era un romanzo coi fiocchi, questo ancora meglio. Cosa si può chiedere di più?
Il libro ci proietta in un mondo a noi sconosciuto, un modo di vivere che per noi, abituati ad essere liberi, è impossibile da capire: la vita di clausura. Nella vicenda, si intrecciano le vite delle suore che abitano il convento del Santa Caterina, nella Ferrara del 1570. Solo nome è fittizio, Sarah Dunant ha preso spunto dalla storia del monastero ferrarese di Sant'Antonio in Polesine. Si narra e si riflette circa la condizione della donna nell'epoca, vista come un oggetto, merce di scambio, tra la dote e i privilegi che otteneva la famiglia di appartenenza, facendola sposare per convenienza (nel migliore dei casi), ma, visto l'alto costo di un matrimonio, era più conveniente farla rinchiudere sin da giovanissima in convento, senza pensare minimamente alle sue aspettative, desideri e alle sofferenze fisiche e mentali che una tale decisione provocava in chi la subiva. Pare che in ogni famiglia solo una figlia era data in sposa, le altre erano condannate loro malgrado alla reclusione. L'autrice dedica il libro a tutte le donne che sono state rinchiuse e private della loro vita contro la loro volontà in un convento, con il bene placido del Vaticano. Le quasi 500 pagine del libro, si leggono velocemente, non senza indignazione, rabbia, impotenza. Subdolamente tutto veniva spacciato come "volere di Dio". Inquietante come in base alla "dote" che era allegata ad una persona, cambiava la "scala gerarchica" (suore, postulanti, convittrici, converse...) in cui veniva ammessa nell'internazione e degli ipotetici "privilegi" in merito. Grazie all'ottima traduzione, la prosa è elegante e scorrevole. Ne consiglio la lettura, ammettendo che, verso la fine, il clima "claustrofobico" e la tematica, mi hanno condotto a portarlo a termine velocemente. Leggerò anche gli altri romanzi storici dell'autrice, scrive bene e tratteggia magistralmente i personaggi, riuscendo a fare uno "scavo" psicologico non indifferente.
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