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Molto bello, una scrittura fuori dal tempo e per nulla ruffiana. Una storia che lascia poco spazio alla speranza, un autore incredibilmente abile a dipingere un paesaggio che con essa si accorda perfettamente, un libro tristissimo e insieme bellissimo, come certi tramonti...
Ho smesso di leggerlo alla fine della prima parte. E' noioso, ripetitivo e prevedibile. Ci sono rimasto veramente male quando il protagonista ha sparato alla lupa, perdipiù incinta. Io amo i lupi, ma ho letto libri migliori. Provate a leggere "Insieme con i lupi " di Nicholas Evans, quello sì che è un grande libro!
Parte lentamente...ma non si ferma più...un capolavoro scolpito nella roccia e nella polvere.
Recensioni
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recensione di Rognoni, F., L'Indice 1996, n. 3
Selvatico e solitario, disdegnoso di giungere a patti con l'industria culturale americana Cormac McCarthy (nato nel 1933) scrive dai primi anni sessanta, con scarso successo e all'oscuro dei più: finché il suo penultimo romanzo, "All the pretty horses" (1992), vincitore del National Book Award, non l'ha improvvisamente portato alla ribalta: così che in breve tempo i suoi paesaggi violenti ed elegiaci sono entrati nell'immaginario collettivo, come quelli degli western messicani di Leone o Peckinpah, in cui sembra rispecchiarsi nel proprio originale consapevole sviluppo della tradizione faulkneriana.
Nessun bisogno che anche da noi McCarthy diventi, dall'oggi al domani, un cult writer; ma è altrettanto vero che "Cavalli selvaggi", come il libro s'intitola nella traduzione di Riccardo Durante (Guida, 1993), ha ottenuto una risonanza assai inferiore ai suoi meriti, e ora non sarà così facile guadagnarsi un pubblico fedele con "Oltre il confine", che è un'opera più ingrata e più ambiziosa, e probabilmente anche meno riuscita. O meglio: molto più indifferente alle attese del lettore, al suo bisogno di "simpatizzare", nel bene e nel male, con i personaggi e le loro storie. È questa un'esigenza che si avverte tanto più fortemente perché le prime cento pagine del romanzo - quando il giovane Billy attraversa il confine (fra Texas e Messico) nel tentativo di salvare la vita di una lupa incinta - la soddisfano quasi fino allo struggimento, con austera, intensissima commozione. Ma come l'ottusa crudeltà degli uomini sancisce il fallimento dell'impresa ("Aveva trasportato la lupa tra le montagne sull'arcione e l'aveva seppellita nei pressi di un alto valico sotto un cumulo di pietrisco. I lupacchiotti che teneva nel ventre sentirono il freddo impossessarsi di loro e piansero al buio, in silenzio; li seppellì tutti, ammucchiò su di loro pietre e si allontan• a cavallo"), la rottura psicologica che il rito funebre segnala (ora il ragazzo ha davvero passato il confine - la "linea d'ombra", direbbe Conrad), comporta anche una rottura della compagine testuale: come se, con la morte della lupa, Billy avesse perso la sua storia, e ora dovesse affidarsi (e il romanzo con lui) alle storie degli altri.
Del più giovane ma più solenne fratello Boyd, innanzitutto, che dal romanzo entra nella leggenda quasi senza aver avuto il tempo d'agire come personaggio ("I suoi capelli chiari sembravano bianchi. Sembrava avesse quattordici anni e che andasse per un'età che non era mai esistita. Sembrava che fosse sempre stato seduto in quel posto e che Dio gli avesse creato intorno gli alberi e le rocce"). Quindi alle storie di una successione di figure sapienziali (un prete, un cieco, uno zingaro) destituite d'ogni sapienza, che raccontano vicende che sarebbe vano interpretare, intimamente contraddittorie, chiavi segrete che non apriranno nessuna porta, in un deserto dove sono il vento, il terremoto, la guerra, piogge improvvise e torrenziali a scoperchiare le case, sfondare le chiese, radere al suolo città derelitte, sotto lo sguardo assente di un Dio rigorosamente biblico, follemente indaffarato a creare e, soprattutto, a distruggere.
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