Una vicenda, tre differenti punti di vista. Il primo è quello del narratore, Jakob Mättich che il giorno in cui suo cognato, Tito van Brock, torna a casa dopo 9 anni di prigionia inizia a mettere per iscritto in un diario tutto ciò che gli è accaduto e di cui è stato testimone per poter meglio comprendere eventi che appaiono oscuri. Jakob tiene il diario dal 1827 al 1855 ma si dilunga anche sugli eventi accaduti in precedenza che ci aiutano a conoscere Timotheus van Brock, esponente della nobiltà estone, prima arrestato e poi rilasciato sempre con la stessa motivazione: la pazzia cui sono attribuite le sue azioni di lesa maestà. Il diario di Jakob riporta fedelmente brani di lettere e scritti dello stesso Timo, quindi il suo punto di vista è presentato direttamente, senza alcuna mediazione. Poi c’è anche Eeva, sorella di Jakob che si ritrova sola dopo pochi mesi di matrimonio, l’unica persona a conoscenza di tutti i dettagli che hanno spinto lo zar Alessandro a firmare l’ordine di arresto nei confronti di uno dei suoi più valorosi ufficiali. Chi è il protagonista del racconto? Timo, con la sua coerenza e fedeltà ai valori della cavalleria? Jakob, l’autore del diario? Eeva, schierata senza mai un dubbio al fianco del marito? Forse nessuno di loro, perché bisogna considerare un altro personaggio, cioè l’Estonia stessa che, nel periodo in cui è ambientato il romanzo, si trova a soffrire sotto il dominio dell’impero russo (che soffocava qualunque orgoglio nazionale e impediva l’uso della lingua estone) e, parallelamente, quando il romanzo viene pubblicato nel 1978, è parte dell’Unione Sovietica che si rifiuta di riconoscere alcuna autonomia culturale al popolo estone. Nelle scuole si studia il russo e lo studio dell’estone non è previsto: l’Estonia avrà una propria lingua nazionale solo dopo la dissoluzione dell’URSS e potrà così recuperare la sua ricca e articolata tradizione culturale, frutto della mescolanza di elementi autoctoni con altri provenienti sia dall’Europa del Baltico sia dalla grande madre Russia. Un romanzo storico in cui l’autore riflette sul rapporto tra potere e bene pubblico, tra privilegi di casta e diritti universali, tra valori dichiarati e azioni che conseguentemente dovrebbero discenderne, tra visione ideale del mondo e pragmatismo .
Il pazzo dello zar
Dopo nove anni di prigionia nella fortezza di Schlüsselburg, il barone Timo von Bock, dichiarato pazzo, viene confinato con la famiglia nei suoi possedimenti baltici, sotto la stretta sorveglianza di spie governative. Che crimine ha commesso questo brillante aristocratico e colonnello dell’Impero russo, ammirato da Goethe e amico intimo dello stesso zar Alessandro? Nato nella culla dei privilegi, Timo è colpevole della follia di non riuscire a scendere a patti con i propri ideali rivoluzionari, un liberale troppo avanti con i tempi, che rifiuta una principessa per sposare una contadina, che libera i suoi servi e tratta da pari i domestici, fino a scrivere allo zar, con la schietta lealtà che il sovrano esige da lui, un’infuocata denuncia contro il regime. Come un «chiodo piantato nel cuore dell’impero», con la purezza pericolosa di un bambino, Timo ingaggia una lotta a distanza con il sovrano, che tenta ogni genere di lusinga e di persecuzione per «guarirlo», in un confronto tra l’intellettuale e il potere, lo spirito libero e il conformismo, e tra due eroi tragici fatalmente legati da un’impossibile amicizia. Jaan Kross si ispira a una reale vicenda storica per scrivere il suo grande romanzo contro l’oppressione, la stessa che i suoi Paesi Baltici continuavano a subire, non più dai Romanov ma dall’Unione Sovietica, e che l'aveva condannato a otto anni di prigionia. Come a dire che la Storia non si ferma, che i sogni dei sognatori sono destinati a essere sognati di nuovo e che, per quanto folli e irrealizzabili, possono dare dignità all’esistenza.
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Patrizia Oddo 01 dicembre 2017
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