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Leggendo "Il processo" di F. Kafka ho constatato, forse definitivamente, quanto sia difficile rimanere distaccati rispetto ad un'opera, in fondo, pur sempre di fantasia. Nonostante sia da molti considerata come un'allegoria della poliedrica condizione umana, essendolo in effetti (o avendo la necessità di considerarla tale), baluardo del concetto di "Allegoria vuota" ideato da W. Benjamin, quest'opera è, a mio avviso, una delle più realistiche nel panorama letterario novecentesco. La potenza evocativa e il tremendo impianto narrativo de "Il processo" risiedono esattamente nella capacità, da parte dell'autore, di aver dato vita ad un'opera, seppur incompiuta, estremamente credibile e verosimile. Alla maniera degli esistenzialisti, è l'assurdità della vicenda a render tale la storia. Ciò, a mio avviso, è reso particolarmente evidente dal fatto che il protagonista della vicenda, Joseph K., in realtà non profonde tanto le proprie energie nel tentativo di comprendere le motivazioni per cui "Il Tribunale" lo condanna, quanto piuttosto nel difendersi, "a prescindere" direi, racimolando qui e lì possibili aiuti. Relativamente al protagonista, si è al cospetto d'un uomo contemporaneamente risoluto e fragile, autonomo e dipendente. I luoghi ch'egli frequenta, con la loro caratterizzazione, ne sono la concretizzazione dello stato psico-fisico; le sue azioni una risposta decisa, ma vana e fallace agli stimoli di un mondo che a stento lo riconosce e che ne sovrasta anima e corpo. Uno stile, quello di Kafka, asciutto, diretto, impenetrabile. La lettura de "Il processo" richiede una particolare attenzione e un'importante predisposizione a tematiche di notevole portata intellettuale; il senso di colpa, l'ineluttabilità dell'invisibile, l'incomunicabilità, il silenzio, l'oppressione.
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