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Anno edizione: 2020
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Nella vita, salvo nel malaugurato caso che si debba perderla ancora giovani, o come si è soliti dire “prima del tempo”, inevitabilmente si arriva a una certa età che viene definita vecchiaia. In genere comincia a sessant’anni, ma, proprio perché non ce ne accorgiamo, inizia molto prima, quando si è toccato l’acme della giovinezza. La vecchiaia non è ben vista, perché al di là del fatto che termina con la morte, comporta un radicale mutamento, fisico e mentale, del nostro modus vivendi. Ne ha parlato, con l’originalità che gli è propria, Massimo Fini in questo libro non lungo e di gradevole lettura, in cui si alternano passato e presente, grazie ai ricordi della gioventù, che con l’avanzare dell’età assumono contorni quasi fiabeschi, di un’epoca d’oro in cui non potremo più tornare. La figura del vecchio, termine che gli interessati ben poco amano, accettando meglio la parola “anziano”, è la protagonista indiscussa di un’opera che a tratti può sembrare anche un pamphlet, una smitizzazione di tanti luoghi comuni propri della “terza età”. In questa analisi dei vecchi, con le loro manie, la tirchieria, la presenza ai riti funebri quasi a voler esorcizzare la morte, emergono tuttavia delle perle di saggezza che danno valore a un’opera che altrimenti sarebbe francamente di non rilevante caratura. Al riguardo basti pensare a quanto Fini scrive: “l’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita” ed è vero, perché non è possibile sognare di realizzare qualcosa in futuro quando si sa che, se non imminente, è assai prossimo quel salto nel buio. Avevano ragioni gli antichi quando parlavano della vecchiaia come qualcosa di orribile e allora non resta altro, per renderla più tollerabile, di abbandonarsi all’ironia, all’autoironia, al sarcasmo, all’humor nero, ma quando non si riesce più a utilizzare questi strumenti è perché la situazione è degenerata, è emersa la demenza senile, l’arteriosclerosi, l’alzheimer, insomma siamo noi senza più esserlo. La morte, tanto esecrata, non fa paura in sé se non fosse perché ci precipita in un viaggio senza ritorno e di frequente il vecchio, se ci pensa, si sente attanagliato da un’angoscia esistenziale tale da fargli balenare l’idea del suicidio, un sistema autarchico per disporre noi stessi della nostra vita, senza dover attendere che questa ci venga tolta. E’ raro, però, che l’idea si concretizzi, perché il paradosso dei vecchi, è che desiderano morire, ma vogliono vivere. E un ulteriore paradosso concerne questo libro, che potrebbe costituire un’interessante lettura per un giovane, ma che non potrebbe comprenderlo, e che invece finisce per essere letto dai vecchi, gli unici che possono capire e che, pur non trovandolo avvincente, avranno conferma di quanto rimuginano giorno dopo giorno sulla loro sorte di esseri senza domani. Da leggere, comunque, perché lo stile è snello e, se ben predisposti, c’è anche da divertirsi.
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