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Anno edizione: 2013
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. Trovate un posto comodo e leggete senza interruzione - vi ci vuole una giornata di relax, dedicata a voi - le 135 pagine di “Requiem per la Ligera”. Ora chiudete gli occhi e fatevi trasportare nella Milano anni ’50. Le strade non sono tutte asfaltate, molte col porfido, la maggior parte sterrate. Ascoltate lo stridere dei tram lungo i binari, sentite sulla pelle il nebbioso inverno meneghino ed inspirate l’aria fredda, grigia, umida e maleodorante dei Navigli. L’Italia è appena uscita umiliata dalla seconda guerra, dopo aver tradito il patto d’onore coi propri alleati. È stata depredata di ogni bene, messa in ginocchio, ridotta ad un cencio. Si lotta quotidianamente per sopravvivere, per sbarcare il lunario, per la michetta. Molti onestamente, parecchi no. Ma non per arricchirsi, come gli attuali delinquenti. Semplicemente per campare. La Ligera ha un codice d’onore, delle regole non scritte, un leader e tanti seguaci. Non si spara a vanvera, non si ammazza se non necessario, non si toccano bambini e donne, non si spacciano droghe, si divide il bottino, si aiutano i bisognosi. È un sogno romantico di solidarietà e giustizia che ricorda le vicende epiche del bosco di Sherwood. Solo che qui non siamo in Inghilterra, ma a Milano. Non si mangia il cervo della riserva del Re ma la busecca, la polenta vuncia, la cotoletta con l’osso. Entrate con la fantasia in queste osterie, così ben descritte e vivide. Sentite il caldo umido appannarvi gli occhiali e salirvi per le nari insieme all’odore intenso di cucina, del vino di giù (quello dei trani), il vociare dei vecchi che battono le carte (cinq e tre vot, scuva), il mix stantio di paletot umidi e scarsa igiene personale. Non è “C’era una volta in America”, né “Il Padrino – parte I”, né “Gl’intoccabili”. È “Requiem per la Ligera”, un film italiano, per questo più forte, vicino, intenso. La Milano nera del dopoguerra, quella che è venuta molto molto prima di quella da bere, dei paninari, dell’Expò. . Dietro questo racconto, lo si sia notato o meno, c’è un grande lavoro di studio e documentazione. L’Autore è un classe ’85; eppure è riuscito a ricostruire l’atmosfera del tempo come se vi fosse vissuto. Ho apprezzato molto la nota storica conclusiva. Come ogni grande romanzo parte da fatti e personaggi reali per rendere vivi e credibili quelli della narrazione. E non è, credetemi, assolutamente facile. . Un accenno allo slang usato dall’Autore. Anche qui plauso a Gatti che ha saputo riscoprire un idioma ormai perso nella notte dei tempi. Anni ’50. Dopoguerra. Molti non sanno né leggere, né scrivere. La televisione non ha ancora unificato la lingua dello stivale. A Milano si parla il milanese. Con quell’accento forte ed inconfondibile e le vocali strette. E quei termini sintetici che sostituiscono una frase intera. “Ta set in prestit”, “Bauscia”, “Bagna giò”, “Cadrega”, “Biot”, “Maltrainsema”; “Malnat”. Ora non lo sa più nessuno. Peccato! . per concludere una nota negativa. Giusto per obiettività, benché libro ed Autore a me piacciano evidentemente e non faccia nulla per nasconderlo. Parecchi errori di stampa! Non inficiano la lettura, ma perché mettere un bel quadro in una cornice di recupero? Tagliamo un orecchio al tipografo? Come monito: la prossima volta starà più attento. .E voi che ne pensate? Cordialmente, Alessandro
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