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Non sono riuscito a finirlo, sarà perché avevo visto il film. Ma questo libro mi è sembrato noioso e ripetitivo!
È il terzo libro che leggo di questa autrice che già si è guadagnata un posto tra i miei preferiti. Quello che ci racconta Jack, cinque anni, è il mondo racchiuso nelle quattro mura della Stanza in cui vive con Ma' da quando è nato. Attraverso il suo sguardo innocente conosciamo una realtà terribile, e insieme a lui seguiamo le vicende che lo porteranno finalmente a vivere nel mondo del Fuori. Una storia tenera e agghiacciante allo stesso tempo. Il piccolo Jack mi è rimasto nel cuore.
Sicuramente una storia originale, ispirata da alcuni noti fatti di cronaca ma portata oltre la cronaca per la presenza di un bambino concepito, nato e cresciuto in una stanzetta cieca di 3 metri per 4. Detto ciò, alcune incongruenze vi sono, il piano per la fuga appare un po' scalcinato e molto telefilmico, e anche le condizioni di vita e di salute in un ambiente claustrofobico come quello descritto appaiono assai edulcorate. La seconda parte del libro è certo meno coinvolgente di quella propriamente carceraria, ma non poteva che essere così se l'obiettivo, che credo tutti i lettori auspicavano, era la redenzione di due anime crudelmente strappate al mondo nel pieno della loro giovinezza.
Recensioni
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Il romanzo che ha ispirato il film "Room".
Abbiamo migliaia di cose da fare ogni mattina, per esempio dare una tazza d’acqua a Pianta dentro Lavandino, per non bagnare in giro, e poi dobbiamo rimetterla sopra Cassettone sul suo piattino. Pianta viveva sopra Tavolo, ma la faccia gialla di Dio le ha bruciato una foglia. Quella foglia è caduta, ma ne sono rimaste nove, grandi come la mia mano e tutte pelose, come un cane, dice Ma’. Però i cani ci sono solo in Tv. Non mi piace il numero nove. Trovo una fogliolina che sta spuntando, e allora il totale fa dieci.
Un sistema chiuso, quattro metri per quattro.
Un letto, un armadio, uno specchio, un televisore. Poco altro.
Due persone. Jack, cinque anni appena compiuti, e Ma’, sua mamma, giovane abbastanza per ricordare cosa c’è fuori, ma invecchiata prima del tempo nella privazione e nella cattività. Ogni oggetto ha un nome proprio, con la maiuscola dei soggetti cui si dà del "tu". Ogni cosa ha una funzione precisa, e ogni funzione scandisce un momento della giornata, così che il tempo possa entrare dentro Stanza.
Televisione porta immagini da pianeti lontani, e quindi non è rappresentazione del mondo, ma solo un telescopio puntato verso galassie irraggiungibili.
Questo ecosistema autosufficiente, dove la relazione fra Ma’ e Jack si nutre di rituali e narrazioni condivisi giorno dopo giorno, conosce una sola possibilità di scambio con quel che c'è fuori: le visite notturne di Old Nick, che Jack non deve vedere e dal quale Ma’ non vuole sia visto.
Old Nick è l’uomo nero, quando apre Porta con il codice segreto, dentro Stanza assieme a lui entra un’aria diversa, che puzza o profuma di cose quali Jack non riesce nemmeno a immaginare.
Jack e Ma’ sono Uno, in un certo senso, per l’intimità innaturale e perpetua cui la prigionia li obbliga, ma sono anche due persone distinte che dovranno sfruttare la loro complicità e una dose mostruosa di coraggio per scoppiare la bolla maligna che li stringe e li soffoca.
Ma’ è bravissima a non far percepire al suo bambino l’orrore della situazione, però: facendo perno sulla fantasia del bambino, trasfigura la coercizione in gioco, e permette a Jack di coltivare una lingua, che è poi la lingua con cui questa storia ci viene raccontata.
Fino al giorno in cui Stanza non diverrà troppo stretta anche per l’immaginazione, e il mondo farà irruzione nella vita di tutti e due con una violenza tale da far chiedere loro se sia valsa la pena di uscire nel Fuori.
“Stanza, Letto, Armadio, Specchio” è un’impresa temeraria, che ha successo grazie alla straordinaria bravura di Emma Donoghue, scrittrice canadese (ma irlandese di nascita) che d’ora in avanti non sarà lecito ignorare. Donoghue prende una materia scurissima, claustrofobica, ai limiti del raccontabile, e fa con noi lettori quel che Ma’ fa con Jack: trasforma quell’orizzonte mutilato, quella privazione insostenibile, nel racconto di una possibilità.
Il rapporto fra madre e figlio è il fulcro, ovviamente, di “Room” (così il titolo originale), e si può intuire quanto questo asse esclusivo e ineffabile possa facilmente trasfomare un romanzo che lo prenda a motivo in una litania patetica o inverosimile, tantopiù se a raccontarne i modi e lo sviluppo è la voce di un bambino. E invece il talento empatico della scrittrice arriva a destinazione, preciso come un bisturi, dotando Jack di una lingua bambina ma ricca, vera, immaginifica, evocativa dello stupore con cui un bimbo impara a nominare il suo mondo, e va addirittura oltre, perché rigenera, attraverso quella stessa meraviglia, l’occhio che Ma' posa sulle cose che Jack sta vedendo.
Una nota di merito alla traduzione dall’inglese di Chiara Spallino, che riesce con l’apparente facilità delle cose ben fatte in un’impresa da far tremare le vene dei polsi.
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