Un libro molto interessante, scritto durante i mesi di soggiorno a Napoli di Sandor Marai. Questo autore, per me rivelazione e conosciuto purtroppo da poco, non delude mai, anche se con Il sangue di san Gennaro siamo un po' lontani da quello che, per me, è il suo capolavoro assoluto: Le braci. Ad ogni modo, si tratta di una lettura molto piacevole ed interessante, contraddistinta dal suo stile unico e poetico. Consigliato, decisamente.
Il sangue di san Gennaro
«A Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l'immondizia, al pescatore monco, perché ammansiva il mare, a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati»: a loro Márai dedica il suo «romanzo napoletano», ambientato nella città dove visse dal '48 al '52, prima di partire per gli Stati Uniti. A formare il vasto coro, lacero e sgargiante, che commenta la vicenda intorno a cui è costruito il libro sono gli uomini, le donne e i bambini della città, con la loro miseria, il loro lerciume, la loro fatica di vivere e il loro orgoglio ancestrale di aristocratici; e le interminabili chiacchiere, le liti che scoppiano furibonde, teatrali, ritualizzate, da una finestra all'altra, i lutti non meno teatrali e urlati, i santi arcigni e polverosi dentro le teche di vetro – con la loro umanità piagata e ghignante. Un intero popolo che, fra tutte le possibilità, crede che «la più verosimile» sia il miracolo. Un giorno, dalle parti di Capo Posillipo, vanno ad abitare due stranieri, un uomo e una donna (inglesi? polacchi?): displaced persons, così li definiscono le autorità, profughi. Anche loro, almeno per un po', crederanno che lì possa avvenire il miracolo. Ma durante una violenta tromba d’aria si verificherà un evento che avrà il senso di una delusione assoluta, di una sconfitta inappellabile, poiché sancirà l'impossibilità di credere che ci sia un futuro per chi, in quanto esule, ha perso la propria identità. Alla fine, rimarranno il Vesuvio, il mare, e per ultimo il vento: «Li ho visti andare e venire, attraverso continenti e oceani, ma ho nascosto le tracce dei loro passi. Dove soffio io, non resta più nulla. Sono io che dico l'ultima parola. E poi verrà il silenzio».
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Delicato e struggente. Di fascino e bellezza, a parere di chi scrive, più che superiore all'acclamato "Le Braci" (stesso editore). Le descrizioni su Napoli ed i suoi abitanti sono autentiche pennellate di realismo lirico. I contenuti della storia - la disperata ricerca da parte di un esule della propria identità che poi non è mai tanto diversa da quella di tutti gli altri abitanti del mondo - trasportano e coinvolgono il lettore in un ventaglio di considerazioni intimamente profonde; e facilmente condivisibili. La scrittura s'impone in una meravigliosa cascata di parole che pur nella sofisticatezza del linguaggio resta sempre di facile fruizione. Un grande, strepitoso Márai
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Renzo Montagnoli 15 luglio 2014
Non avevo mai letto nulla di Sandor Màrai, scrittore ungherese più noto per il romanzo Le braci ed è quindi con particolare curiosità che mi sono accostato a “Il sangue di San Gennaro”, libro frutto di esperienze e conoscenze maturate nel periodo dal 1948 al 1952 in cui, esule dall’Ungheria ormai oppressa dal comunismo sovietico, visse a Napoli, prima di emigrare negli Stati Uniti. Dico subito che è un’opera del tutto particolare, che presenta le caratteristiche del romanzo, e quindi dell’invenzione, ma che riflette anche la condizione dell’autore, forzatamente esule. Marài, uomo mitteleuropeo, non poteva non restare colpito dalla città partenopea e soprattutto dai suoi abitanti, così lontani dal suo ambiente geometrico, schematico, quasi perfetto da far insorgere spesso la noia. Scrive, descrive, presenta tutta una serie di personaggi che potremo anche ritrovare in certe commedie di Eduardo De Filippo; in una miseria atavica, che la guerra ha accentuato, si affacciano via via comparse ben delineate, figure a cui il narratore si rivolge con affetto e talora con ironia, ma non si tratta di stilemi, non sono frutto di luoghi comuni, anche se inevitabilmente questi ci sono, perché costituiscono una caratteristica della maggior parte dei partenopei. In ogni caso, Marài ha un occhio benevolo, così che l’eventuale pietà per un popolo condannato all’indigenza si trasforma in una carica umana ed emotiva palpabile, perché questi protagonisti, che campano alla giornata, mai chiedono e sempre danno, danno il loro desiderio di vivere, danno il piacere di due parole, gratificano di un sorriso e mai, dico mai tendono la mano. Sì, accettano il piccolo obolo, il postino non dice no alla mancia, il bambino delle spazzature non respinge la mano che gli allunga tre caramelle e i mozziconi di sigarette. Quella miseria di antiche origini è diventata un segno distintivo, una peculiarità, di cui i personaggi, se non ne sono contenti, non ne sono nemmeno vergognosi, perché c’è la matrice comune della dignità e l’attesa perenne di qualche cosa che cambi e che poi non avviene, tranne il miracolo della liquefazione del Sangue di San Gennaro, che è lì come un conforto, come per dire di non perdere mai la speranza. In questo contesto ci sono le bellezze di Napoli, di Posillipo, di Nisida, del suo mare, descritte con un tocco di grazia, oserei dire una tenerezza che viene da una gioia del cuore nell’avere l’opportunità di bearsene. Quanto sopra concerne però solo la prima parte del libro, perché nella seconda e nella terza parte cambia il registro e prende il sopravvento la particolare condizione dell’esule.. Pur se logiche le considerazioni, anche tenendo conto di condivisibili riflessioni, il passaggio in queste nuove pagine è troppo brusco, legate alla prima parte dalla morte, sfracellato sulla scogliera, di uno straniero, giunto lì con una donna, e su cui si intende indagare, o almeno lo fa la polizia per sapere se si tratta di disgrazia, di suicidio o di omicidio. Non che qui la lettura però diventi poco piacevole, perché non è così, anche se ci sono tre lunghi monologhi un po’ grevi, ma particolarmente affascinanti. E allora mi sono chiesto il perché della prima parte che ha toni diversi, anche talora sublimi, e ho pensato – è un’idea mia, però . che l’autore abbia voluto delineare il destino di genti predestinate (appunto questo popolino che vive nell’illusione che qualcosa cambi) come similitudine del mondo degli esuli, perché per loro vige la stessa situazione. Si spera nel ritorno, ma ammesso e concesso che ciò un giorno avvenga, che troveranno in patria? Una ragazza di cui erano innamorati e che ora invecchiata fa la buona madre, un vuoto d’anni in cui par di non aver vissuto, perché chi è costretto ad essere senza patria è come se il suo tempo si fosse fermato a quando se n’è andato, e quindi nulla più riconosce, perché intanto, per gli altri, per i rimasti, il tempo ha camminato. Il sangue di San Gennaro è un buon romanzo e forse avrebbe potuto essere eccellente se non vi fosse stato il cambio di registro dalla prima alle altre due parti, queste per niente disprezzabili ma incomparabili con l’altra. Meglio sarebbe stato forse se si fosse fermato a pagina 175, lasciando in sospeso l’indagine per conoscere se si doveva parlare di disgrazia, di suicidio o di omicidio, perché tanto, lì a Napoli, nulla è certo se non la quotidiana incertezza.
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