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Anno edizione: 2016
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“Condannato a morte! Sono cinque settimane che vivo con questo pensiero, sempre solo in sua compagnia, sempre raggelato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso” (p.51) Avvicinandosi a questo tema etico, ogni individuo si dovrebbe porre alcune domande imprescindibili. Siamo in grado di giudicare se un uomo debba vivere o morire e, quindi, togliergli la vita? “Vendicare è dell’individuo, punire è di Dio” (p.164). La giustizia può mettersi sullo stesso piano di un criminale? Se l’omicidio è un delitto, non lo è solo quando a macchiarsene è il singolo, ma anche quando a macchiarsene è l’intera società, per decreto dei giudici e per mano del boia. Non è questione di innocenza o colpevolezza dell’imputato, di minore o maggiore efferatezza del delitto commesso, ma del principio universale della sacralità della vita. La giustizia deve essere più alta, metaforicamente parlando, della crudele vendetta: “La società sta nel mezzo. Il castigo è al di sopra, la vendetta al di sotto. Niente di così grande o di così piccolo le si addice. Essa non deve punire per vendicarsi, ma correggere per migliorare” (p.164). La giustizia riguarda un intero popolo, la vendetta poche persone con le quali la maggior parte della società non si identifica. Diciamolo palesemente: la pena di morte è un omicidio di Stato. Il condannato qui non ha nome, non si conosce il suo crimine, né la sua efferatezza: questo non importa, l’importante è prendere coscienza di questo tema etico e, quindi, analizzarlo come tema assoluto, non come caso particolare. Per fare in modo che il lettore sia coinvolto il più possibile nella lettura e che si identifichi il più possibile con il protagonista, lo scrittore usa vari espedienti: -utilizzo della prima persona. -la minuziosa descrizione delle percezioni esterne ed interne, per restituire tanto il senso di straniamento del protagonista quanto la sua estraniazione. -il sottolineare l’agonia dell’attesa attraverso immagini e termini collegati alla testa, al sangue, alla lama per ingenerare un condizionamento subliminale. -la calibrata alternanza di momenti emotivamente intensi: per esempio brevi frasi esclamative che danno il senso del grido; ad altri in cui prevalgono il distacco e la difesa psichica: “I due gendarmi mi aspettavano sulla porta della cella. Mi rimisero le manette. Avevano una piccola serratura complicata che richiusero con cura. Li lasciai fare: era una macchina sopra una macchina”, p.54; ad altri ancora in cui viene fuori un’ironia assurda che sottolinea la mancanza di empatia dell’individuo che, di volta in volta, si pone di fronte al condannato: “In quel momento la tabacchiera, che tendeva verso di me, si è scontrata con la grata che ci separava. Uno scossone ha fatto sì che la urtasse con tanta violenza da farla cadere, aperta com’era, ai piedi del gendarme. Maledetta grata! È sbottato l’usciere. Si è girato verso di me. Allora? Non sono sfortunato? Tutto il mio tabacco è perso. Io perdo più di voi, gli ho risposto sorridendo. Ha cercato di raccogliere il tabacco, borbottando tra i denti: Più di me! facile dirlo. Niente tabacco fino a Parigi! E’ tremendo!” (p.91). Cosa prova un condannato a morte? Difficile dirlo. Ogni caso è a se. Cosa mi ha trasmesso il libro? -Un senso di claustrofobia fisica e mentale fin dalle prime pagine: “Ora sono in gabbia. Il mio corpo è rinchiuso in una cella, la mia mente imprigionata in’un idea. Un’idea orribile, cruenta, implacabile! Ho un unico pensiero, un’unica convinzione, un’unica certezza: condannato a morte! Qualunque cosa faccia, è sempre lì, quel pensiero infernale, come uno spettro di piombo che mi sta a fianco, solitario e geloso, scacciando ogni distrazione, a tu per tu con me, miserabile, scrollandomi con le sue mani gelide quando voglio voltare la testa dall’altra parte o chiudere gli occhi. Si insinua in tutte le forme ovunque la mia mente provi a sfuggirgli, si intromette come un ritornello orribile in tutte le frasi che mi vengono rivolte, si aggrappa insieme a me alle squallide sbarre della mia cella; mi ossessiona da sveglio, spia il mio sonno convulso e riappare nei miei sogni sotto forma di lama” (pp.51-52). -La consapevolezza che ha il condannato, una volta tale, di essere altro dalla società che lo circonda e la sua disumanizzazione, che si respira anche attraverso alcuni termini come preda. “Fino alla sentenza di morte, mi ero sentito respirare, palpitare, vivere nello stesso mondo degli altri; ora distinguevo chiaramente una specie di barriera tra il mondo e me” (p.57). “Almeno, questi uomini mi compatiscono, sono gli unici. I carcerieri, i secondini e le guardie, non ce l’ho con loro, chiacchierano e ridono, e parlano di me, davanti a me, come di una cosa” (p.60). “Io ero lì, come una delle pietre da misurare” (pag.104). -Il cercare di non farsi prendere dalla disperazione: “Condannato a morte! Gli uomini, ricordo di aver letto in non so quale libro dove c’era solo quello di buono, gli uomini sono tutti condannati a morte con rinvii indefiniti. Cosa c’è di tanto cambiato nella mia situazione?” (p.57). -La tortura mentale che si auto-infligge nel tempo di attesa dell’esecuzione: conta i giorni, le ore e i minuti che lo separano dalla fine. -Il surrealismo di attenzioni benevole che il boia ed altri hanno verso di lui il giorno del giudizio (p.123 e 124). -La consapevolezza che se educhi il popolo alla malvagità, questo crescerà chiedendo sempre più sangue: “Oh! L’orribile popolino con le sue grida da iena!” (p.128). “Neghiamo che lo spettacolo dei supplizi produca l’effetto che ci si attende. Lungi dall’edificare il popolo, lo demoralizza e ne guasta ogni sensibilità, e di conseguenza ogni virtù” (p.165). -Infine, il tema della riabilitazione negata, che spinge il detenuto a commettere nuovi reati.
Breve romanzo tramite il quale Hugo ci pone nei panni di un uomo condannato a morte che attende di essere processato e giustiziato. L'impressione è davvero quella di leggere i suoi pensieri, dalle descrizioni degli ambienti ai pensieri che affollano la mente di un uomo posto di fronte al nulla della morte. E' stata una lettura impegnativa a livello emotivo, specialmente nelle pagine in cui vengono ricordati i momenti di gioia e gli affetti famigliari. Il suo realismo trascende il tempo in cui è stato scritto: è un’opera a mio parere di cui non si parla abbastanza e che, per l'universalità e (ahimè) l'attualità dei suoi temi, meriterebbe più attenzione.
Victor Hugo scrive in questo breve libro di un argomento che viene dimenticato sempre più: la pena di morte. Nonostante può sembrarci così incredibilmente lontano,Hugo riesce a colpire i pensieri più profondi,avvolgendoci nel tormentoso animo del condannato a morte,che ripetutamente continua a chiedersi quanto manca alla sua fine. Un’intensa storia che tralascia però un dettaglio fondamentale: la pena. Ed è così che,non conoscendo alcuna colpa del protagonista,lo scrittore riesce a farci appassionare totalmente al povero condannato.
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