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Adoro Svevo per i luoghi angusti, male illuminati, soffocanti in cui sceglie di muovere i suoi personaggi, piccoli ometti guidati da piccole ambizioni, da malizie grossolane e da ripicche ridicole. Gli ambienti ricostruiscono in scala il mondo moderno, in tutto simile a un dedalo di corridoi ministeriali, di grigie stanze arredate senza cura in cui gli istinti, l’amore, la libertà, la fame di gloria o di comunicazione sono stritolati dalla mediocrità propria e altrui, dalle regole del decoro borghese e della produzione di massa e dall’impossibilità per il singolo di opporvisi. Bellissimo il contrasto tra il mondo interiore del protagonista, tutto tormenti, vendette sognate e successi immaginati e il mondo a lui circostante, la faccia giallognola dei suoi padroni di casa e il grigiore del posto di lavoro, dove il tempo è scandito dal susseguirsi banale delle incombenze in cui anche la morte di una persona assomiglia a una pratica da smaltire e presto dimenticare.
Un uomo dentro se stesso, continuamente assorto nel flusso delle proprie cadenze sensibili, di un mondo sociale e lavorativo che lo condiziona e lo affoga, di una solitudine che è comoda e insana al tempo. Lunghi richiami d'accidia e brevissime scosse sui torpori più impacciati, quasi a descrivere la paura della vita in un continuo ritorno nella propria anima, guscio nel quale e dal quale la parola naviga nei fondali della coscienza. Il vivere, quest'ingombro illeggibile da spartire con gli altri; la società, sovrana malata che detta mode e stimoli, friabili impegni e obbedienze del secolo nuovo ormai al balcone, mentre nulla calma e distende lo spirito meglio degli inetti rientri in se stesso dove la libertà può incespicare serena nelle siepi di un egoismo sognante. Alfonso è l'uomo ricettivo che sente e tocca nelle sue corde di dentro le biliose bassezze del mondano e insieme la necessità di sopportarlo (la vita di banca lo morde e lo assilla, ma è inevitavile). Tipica creatura sveviana, paradossale e illusa a rincorrere chimere salvifiche dentro ingranaggi terribili, un'innocenza, un desiderio d'amore che si fa carne e presa e che tuttavia, nel corso della storia, è destinato al naufragio di una povera barchetta, travolta da un intorno che stritola, divora, travolge. La seduzione, l'intesa, non bastano più, Annetta è l'uguale di un mondo in cui Alfonso non sa entrare, la taglia goffa di un abito sempre inadeguato, dunque fino all'addio. La madre morente lo richiamerà al paese d'origine, come in un mantello di crescenti astrazioni, fantasticherie personali che sono già il volto e la conferma della sua esclusione dal centro della vita, da ambizioni nutrite e perdute, da bussole malsane, dal proprio io smarrito del quale tuttavia egli sente i numeri, l'eccezione, il brillio, la resa che salva da ogni impurità e ogni contagio. Lo Svevo in assoluto che amo di più; romanzo di un carattere mancato e riuscito, un fragile meraviglioso disadattato che commuoverà sempre.
Dico che ero fortemente tentato dal 5 ma non sono riuscito a perdonare al romanzo la lunga parte centrale che Svevo dedica, in modo secondo me troppo generoso, alla frequentazione tra l'eroe Alfonso, troppo sensibile, troppo intelligente, troppo ricettivo di ogni minima sfumatura della vita per poterla vivere, e la bella, ricca e leggera Annetta. La storia è banale e bellissima e per una volta mi sentirei di consigliarla anche al lettore da ombrellone, ma chi nei racconti scritti cerca qualcosa in più, qui troverà la bizzarra e zoppicante grammatica sveviana al servizio di una scrittura di stampo chiaramente naturalistico, meticolosa nel sondare l'animo travagliato di quel magnifico inadeguato, insicuro, cauto fino al condannarsi ad un'esistenza ai margini (che in realtà non saprà accettare) che è il memorabile protagonista Alfonso Nitti.
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