Forse l'unico vero libro di Aldo Nove. Scritto benissimo, è un viaggio negli abissi dell'anima e della psiche umana. L'autore riesce e prenderci per mano e a portarci con sé, indietro nel tempo, raccontandoci il suo calvario. Che poi è una scena comune a tante altre vite, la morte interiore che porta alla rinascita. Da leggere assolutamente.
La vita oscena
Un bambino osserva il mondo degli adulti con la sua voce tersa e visionaria. Il padre che guida velocissimo cantando jingle di Carosello, ma da quando la moglie si è ammalata spesso ferma l'auto di colpo e «fa la faccia della morte». La madre che era una hippy ma da quando ha perso i capelli usa parrucche che la fanno sembrare un'astronauta. Rimasto solo, ormai adolescente, il protagonista sprofonda nell'alcol e negli psicofarmaci finché non manda a fuoco la casa. E comincia la sua iniziazione all'abisso, dove droga e irrefrenabile desiderio sessuale ricalcano il meccanismo dell'attesa e del consumo che riempie le nostre esistenze.
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Il nostro modo di affrontare il dolore abbraccia reazioni così differenti. A volte ci diciamo, davanti ad una persona che vive un forte dolore, almeno reagisce bene. Oppure non riesce a farsene una ragione. C'è chi viene marchiato a fuoco da una perdita, da un evento e da allora tutta la sua esistenza è condizionata a quel dolore. In questo libro il dolore si veste di morte, "fa la faccia della morte". Appena quindicenne il protagonista, di cui nell'ultima parte del libro si conosce solo il nome che lui stesso sceglie come nome d'arte, perde entrambi i genitori... la discesa per lui è inevitabile, non prova neanche ad avere una reazione, "Il giorno in cui mia madre morì pensavo ad altro". La narrazione è così dannatamente introspettiva, così minuziosa che ad un certo punto si ha la sensazione di essere quel dolore, sulla lingua senti l'intorpidimento del flunitrazepam non diluito, ti sanguina il naso, ti sembra di scorgere te stesso nell'angolo di una stanza dove si scattano foto per una rivista porno. Tu sei lì che guardi nascosto quegli amplessi e non ne provi vergogna. La poesia e la musica cantano nenie spietate adagiando il protagonista in una culla, solo, sotto una tempesta e il livello narrativo si fa profondo e commovente: "Mi interessava la poesia. Perché potevo leggerla per una pagina e chiudere il libro senza dovermi chiedere come sarebbe andata a finire. Perché era a frammenti, come la mia vita. Perché sapeva raccontarmela in modo aspro, senza la compassione che si dà a chi non sta bene. Aprendone squarci improvvisi. Perché cercava la verità e non il successo. Perché la vera poesia è crudele. Perché la vera poesia fa male". E qui si cerca un commiato simile a quello di Georg Trakl che esplode in un delirio allucinato, tutto il dolore delle nascite e "il furioso lamento delle loro bocche in frantumi". Il finale troppo clemente non toglie quasi nulla alla bellezza struggente di questo viaggio.
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