Non lasciatevi intimorire, la lettura di questo libro ripaga ampiamente lo sforzo! All'inizio la scrittura ricca, arzigogolata e arabescata di Meacci non mette del tutto a proprio agio il lettore, a meno che non ci si sia già fatti le ossa con Celine, Gadda, Joyce Miller, Durrell, Arbasino, Manganelli, Amis, Wallace, Pynchon e compagnia bella, insomma la 'crème' dei clowns-funamboli della parola nella letteratura del secolo XX e XXI. Tra i quali Giordano Meacci può entrare con grande merito e con la fronte cinta d'alloro. Quindi il consiglio è di procedere con pazienza e determinazione fino a pagina 440 per rendersi conto d'aver letto uno dei romanzi più divertenti, intelligenti e originali degli ultimi anni. Inoltre si impara il cinghialese che può sempre tornare utile nella vita.
Il cinghiale che uccise Liberty Valance
Nell'immaginario paesino di Corsignano -tra Toscana e Umbria - la vita procede come sempre. C'è gente che lavora, donne che tradiscono i propri uomini e uomini che perdono una fortuna a carte. C'è una vecchia che ricorda il giorno in cui fu abbandonata sull'altare, un avvocato canaglia, due bellissime sorelle che eccellono nell'arte della prostituzione e una bambina che rischia la morte. E c'è una piccola comunità di cinghiali che scorrazza nei boschi circostanti. Se non fosse che uno di questi cinghiali acquista misteriosamente facoltà che trascendono la sua natura. Non solo diventa capace di elaborare pensieri degni di un essere umano, ma, esattamente come noi, diventa consapevole anche della morte. Troppo umano per essere del tutto compreso dai suoi simili e troppo bestia per non essere temuto dagli umani: "il Cinghiale che uccise Liberty Valance" si ritrova all'improvviso in una terra di nessuno che da una parte lo getta nella solitudine ma dall'altra gli dà la capacità di accedere ai segreti di Corsignano, leggendo nel cuore dei suoi abitanti.
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Autore:
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Editore:
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Collana:
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Anno edizione:2016
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La scrittura ricca, arzigogolata e arabescata di Meacci non mette del tutto a proprio agio il lettore, a meno che non ci si sia già fatti le ossa con Celine, Gadda, Joyce Miller, Durrell, Arbasino, Manganelli, Amis, Wallace, Pynchon e compagnia bella, insomma la 'crème' dei clowns-funamboli della parola nella letteratura del secolo XX e XXI. Tra i quali Giordano Meacci può entrare con grande merito e con la fronte cinta d'alloro. Quindi il consiglio è di procedere con pazienza e determinazione fino a pagina 440 per rendersi conto d'aver letto uno dei romanzi più divertenti, intelligenti e originali degli ultimi anni.
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Riccardo Milia 29 novembre 2017
Meacci è uno che gioca a fare lo scrittore geniale senza riuscirci, un affastellatore di parole che all'orecchio disattento - o troppo illuso (cit.) - suonino letterarie e geniali ma che non vogliono dire nulla e sono pure brutte da leggere. Poi con questa mania di scrivere in grafia univerbata parole separate, tipo persempre dopopranzo ondanera nonritorno (che figo, che originale, che stupidaggine fine a se stessa) o di dare enfasi mille volte in ogni pagina a qualsiasi parola a caso usando il corsivo. Lo trovo insopportabile. Non ha un centesimo dell'abilità di un Michele Mari (dove la ricercatezza linguistica ha un senso, è divertissement, ed è vera ricercatezza, non uno sforzato sbrodolìo pseudoletterario); semmai il suo talento è più paragonabile a quello di un Baricco in overdose di pretenziosità. Pieno di macchinosità, errori sintattici, non sequitur, salti logici che dovrebbero risultare poetici ma risultano casuali e goffi.