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“Una macchina per far soldi… Lui serviva solo a questo… Paga, paga, e poi vattene, crepa…” (p.35) Fin dal titolo la Nemirowsky ci descrive bene il personaggio che ci troveremo davanti. Si chiama Golder, richiamo non troppo velato all’oro, ed è un ricco finanziere “ebreuccio” (p.109) cinico e spietato la cui unica fonte di passione sono gli affari e l’accumulo di soldi. Il libro è una saga familiare degli ultimi anni della sua vita, un ritratto impietoso del mondo dell’alta finanza, non dissimile da quello d’oggi, intorno al quale gravitano personaggi simili a lui e di dubbia morale. Lo vedo lì seduto alla scrivania, pensando ad un nuovo contratto da firmare… “(…) un uomo di più di sessant’anni, enorme, con le membra grasse e flaccide, gli occhi color dell’acqua. Vivacissimi ed opalescenti; folti capelli bianchi gli incorniciavano il viso devastato, duro, come plasmato da una mano rozza e pesante dal volto solitamente bianco” (p.15). e quelle mani, forti e tozze, che non furono mai capaci di una carezza affettuosa ed amorevole per la moglie e la figlia. “Non lo posso vedere… Non mi ha mai capita, mai amata… I soldi, i soldi, per tutta la vita… Una specie di macchina senza cuore, senza passione… Per anni ho condiviso il letto con lui… E’ sempre stato come adesso: duro, gelido… I soldi, gli affari… Mai un sorriso, una carezza… Grida, scenate… Ah quanto sono stata infelice…” (pp.105-106). Una famiglia senza amore, felicità né stima reciproca è quella dei Golder. Anche le donne del nucleo familiare hanno i loro difetti, come la frivolezza: la loro unica aspirazione sono i gioielli, i vestiti e le macchine. L’unica cosa importante, infatti, è l’apparenza e mantenere uno status sociale adeguato all’ambiente che si frequenta. La moglie Gloria è ritratta come un adultera che ruba il denaro accumulato dal marito per crearsi un futuro prospero dopo di lui. “Lo odiava, quell’uomo brutale, vecchio, sciatto, che teneva solo ai soldi, quei luridi soldi che non era neanche capace di mettere da parte! Non l’aveva mai amata… Se la copriva di gioielli era solo per fare di lei un trofeo vivente (…)” (p.74). La figlia Joyce viene descritta viziata e “civettuola” pronta, infatti, a circuire con parole quali “dad” o “paparino” David Golder pur di estorcergli il denaro. <<Vedi il fatto è che io nella vita voglio tutto, altrimenti preferisco morire! Tutto! Tutto! (…) Io voglio l’amore, la giovinezza, voglio tutto nella vita!…>> Golder sospirò: <<I soldi…>> Joyce lo interruppe con un gesto impulsivo e gioioso. <<I soldi… anche i soldi, certo, ma ancor più i bei vestiti, i gioielli!… Tutto ti dico, paparino mio!… (p.62). Infine, anche la rivalità mal celata tra madre e figlia che, quasi fossero animali, si sbranano per l’ultimo tozzo di pane, rendono questa famiglia a dir poco disfunzionale. Morte e denaro si intrecciano dalle prime fino alle ultime pagine: l’incipit del romanzo è un secco <<No>>, un diniego da parte di Golder di soccorrere finanziariamente il suo socio inducendolo al suicidio; si chiude con l’emblematico lascito che Golder stesso fa ad uno sconosciuto, un “portafoglio gonfio di valuta inglese” (p.177). Un romanzo che bisogna assolutamente leggere per capire come il denaro, che giustamente nel Medioevo definivano lo “sterco del diavolo”, sporca ogni cosa nella vita di un uomo ossessionato, avvelenando e distruggendo irrimediabilmente i rapporti affettivi.
David Golder é stato il primo romanzo di Irène Némirovsky ad essere pubblicato e al riguardo c’è un aneddoto che, forse, risponde a verità: l’editore, letto il manoscritto che aveva ricevuto per posta, volle conoscere personalmente l’autore, al fine di fugare l’eventualità che questo fosse il prestanome di qualche narratore famoso. In effetti l’opera stupì non poco il pubblico, trattandosi di opera prima e già comunque di notevole livello, per quanto a mio parere, inferiore a successivi romanzi. Per esempio, se già si intravvede la capacità di analisi che è propria della Némirovsky, lo stile non è così fluido come nelle produzioni che seguiranno e anche la costruzione, per quanto robusta, non è ancora così equilibrata come quella a cui ci ha abituato. Resta però il fatto che in un’epoca in cui la finanza, l’alta finanza, prosperava allegramente, anche se il 1929, con la grande crisi, è ormai prossimo, la scrittrice ucraina smonta certi falsi miti, fornendoci un quadro impietoso del mondo degli affari, fatto da rapaci senza cuore e che maturano sempre di più la convinzione che con il denaro si possa comprare tutto, anche l’amore. La figura di questo satrapo ebreo, il cui nome é un vaticinio, riluce di triste squallore, anche se tuttavia alla fine – una conclusione edificante che era forse d’obbligo, trattandosi del primo romanzo – l’uomo si riscatta, e non per interesse, ma per affetto. Forse non é un caso che il protagonista sia ebreo, visto che il padre della Némirovsky era un celebre banchiere israelita, e poi, senza voler cercare una casistica, di imprenditori ebrei nell’alta finanza ce ne sono sempre stati tanti. Comunque, ebrei o cristiani, agnostici o atei, questi capitalisti del denaro si somigliano tutti e Irène Némirovsky sembra volerci suggerire che dove questi Re Mida posano le loro mani la vita si svilisce, il denaro e solo il denaro diventa lo scopo dell’esistenza e l’inaridimento é crescente, tanto che lo splendore esterno non riesce più a camuffare il vuoto che si portano dentro. Da leggere, senz’altro.
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