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Una famiglia americana
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Descrizione


In "Una famiglia americana" Joyce Carol Oates ci porta dentro il cuore nero della società borghese. Un mondo tanto affabile quanto spietato nei confronti di chi infrange le sue regole e in cui inevitabilmente ci si ritrova nel contempo vittime e carnefici. Tutti ammirano i Mulvaney, tutti li invidiano. Una famiglia allegra, numerosa, perfetta. Nella loro fattoria da fiaba nel Nord dello stato di New York regna la concordia. Michael, il padre, ha un’impresa edile ben avviata ed è un rispettato membro del Country Club. Sua moglie Corinne è una donna attiva, profondamente religiosa e con la passione per l’antiquariato e la politica. Dei figli, Mike junior è un campione di football, Patrick uno scienziato in erba e il piccolo Judd la mascotte della squadra. Poi c’è lei, la dolce Marianne: studentessa modello, sempre attenta agli altri, si affaccia con un po’ di ingenuità ai suoi sedici anni. Nel giorno di san Valentino, dopo il ballo della scuola, le accade qualcosa di terribile. Un «incidente» innominato e innominabile che devasta la serenità della casa. In un attimo la famiglia perfetta non esiste più: ciascuno combatte la propria lotta in nome della giustizia, della vendetta o del perdono, tutti si trasformano e allontanano. Per ritrovarsi, i Mulvaney hanno di fronte una lunga strada, un cammino in cui ognuno, liberato dall’obbligo di incarnare la perfezione, dovrà diventare semplicemente

Dettagli

13 gennaio 2023
512 p., Brossura
9788842832324

Valutazioni e recensioni

  • Come ogni saga familiare, un ritratto ideale, idilliaco e fiabesco. L’unione, l’amore, la simbiosi domestica che cova i germi degli errori futuri. Poi la cesura. Il punto di rottura, la svolta. La confusione e lo stordimento che precedono la rapida caduta, il capovolgimento, il vuoto, lo smascheramento agghiacciante. Una scrittura avvincente e avvolgente, nonostante la prevedibilità dei contenuti. I profili psicologici dei protagonisti sono forse l’aspetto più “gustoso” dell’opera. Unico neo, secondo me, il finale inutilmente prolisso. Superfluo. Libro consigliato.

  • Tra i bersagli privilegiati della Oates c'è, e fin dagli inizi della sua lunga carriera, la volontà di smascherare la struttura dispotica della famiglia nucleare borghese per spostare in primo piano i meccanismi violenti sui quali si basa, le asimmetrie di cui si nutre per restare in piedi. Alla base di «We Were the Mulvaneys» (1996) c'è una lunga riflessione sulla possibilità che, nonostante questi orrori, la soggettività dei singoli possa ugualmente formarsi, e quindi sia possibile indagare su di essa in forma di romanzo per comprenderla. Il percorso è però ostacolato dai giochi identitari che ci permettono di continuare a vivere tra mille compromessi e più rare oasi di pace momentanea. Quindi non è un'operazione semplice, ma d'altra parte «non c'è nulla tra gli esseri umani che non sia complicato, ed è impossibile parlare di esseri umani senza semplificare e procedere per approssimazioni» (p. 422).

  • Ah se l'avesse scritta Balzac questa storia, quanta ironia e quanta commozione avremmo trovato tra le righe e nelle pieghe di ciascun personaggio. E invece l'ha scritta la Oates, una scrittrice a me sconosciuta fino ad oggi che mi trattengo a stento dal definire glaciale, asettica, distante. Quanta poca empatia per questi esseri umani, forse con la sola eccezione di Marianne e dei numerosi animali che popolano tutto il romanzo. La Oates parte con una perfetta e piuttosto antipatica famiglia per bene, prosegue con una valanga di disgrazie, finisce con una sorta di happy end (il 4 luglio!!) che chiude tutte le esistenze in un pacchetto colorato di cui ancora non mi capacito. Di 1/3 della narrazione forse potevamo fare a meno, le prolissità della scrittrice non aiutano perchè contrariamente a Balzac che nella prolissità sguazza e ci coinvolge, qui ci perdiamo e spesso anche annoiamo, prendendo le distanze poco alla volta. Il titolo italiano poi non aiuta neanche a capire di cosa stiamo leggendo. Più opportuno "Eravamo i Mulvaney", una delle tante famiglie americane appunto. Ah fosse stato P. Roth a raccontare la stessa storia...

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