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L'ultima epifania di Nathan Zuckermann ha le forme di un eptamerone e il tenue cromatismo di un'elegia del tramonto. I sette giorni che il principale alter ego di Roth decide di trascorrere in una ipernevrotica Manhattan sembrano infatti avere lo scopo di convincere lo stesso personaggio che ormai anche la sua ora è giunta. Chi tanti anni prima aveva incarnato l'autorità intellettuale quasi paterna non c'è più da molto tempo; chi potrebbe aiutarlo a ricordare come era la vita prima non può farlo perché la malattia lo impedisce; chi risveglia in lui il principio di piacere finisce per essere anche il suo boia, perché lo costringe involontariamente a prendere atto dell'insostenibilità del desiderio a causa del declino del corpo, a cui si sta aggiungendo quello della mente. Perfino i ristoranti e i negozi non sono più gli stessi, nella New York City che sta votando per il secondo mandato di George W. Bush. L'amplificazione romanzesca della condizione umana dovrebbe allora essere evitata, in un mondo ormai indifferente a queste cose, ripete Zuckermann a se stesso. E invece no, perché «per pochissime persone questa amplificazione costituisce la loro unica sicurezza, e il non vissuto, la supposizione impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più» (cap. 2). E allora addio Nathan, il tuo non vissuto finisce qui.
...nè per giovani. Un pugno nello stomaco, come ormai avviene per tutti gli ultimi libri di Roth. Da non leggere se hai meno di 45 anni (non lo capiresti), né se hai più di 55 anni (ti getteresti dalla finestra piuttosto che scegliere di invecchiare). La lucida, cinica, spietata parabola discendente di un corpo e di una mente in declino, mentre il desiderio che non muore diventa una tortura.
Non ho letto tutti i suoi romanzi ma fra quelli letti l'ho trovato assolutamente il migliore. Ve lo consiglio. Non serve parlare della trama soltanto leggendolo si può apprezzare; solo Roth è in grado di creare e portarti a molte riflessioni nella vita vere e mai superflue.
Recensioni
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