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Anno edizione: 2013
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“Le intermittenze della morte” (in originale “As intermitências da morte”) è un romanzo pubblicato nel 2005 dal narratore, poeta e drammaturgo portoghese José Saramago [1922-2010]. Riconosciuto come uno degli autori più significativi della letteratura portoghese contemporanea, Saramago fu insignito del premio Nobel nel 1998. In quest’opera, viene messa in scena dall’autore un amaro e tragicomico sciopero della morte, sciopero che va a intaccare sia chi sulla morte faceva affari, facendone la sua fonte di reddito, sia la funzione e il ruolo propri della Chiesa: ora che non c’è più uno spauracchio e non serve più alcuna resurrezione, che cosa ne sarà della Chiesa stessa? Intanto la morte, con fattezze di donna, dopo sette mesi “dal giorno in cui nessuno moriva più”, attraverso una lettera scritta a mano, chiusa in una busta viola, indirizzata ai media, annuncia che sta per riprendere il suo “consueto” lavoro. Da quel momento in poi altre lettere viola raggiungeranno i loro destinatari, che torneranno “finalmente” a morire. Un violoncellista, però, dopo che la lettera a lui indirizzata ritorna al mittente per ben tre volte, costringerà la morte a bussare alla sua porta per consegnarla di persona… Anche in questo romanzo, a ben vedere, come sicuramente in tutte le sue opere più mature, l’autore elegge lo stile allegorico e l’uso del grottesco a strumenti di denuncia… Assolutamente consigliato!
assolutamente geniale l'idea nella prima parte del romanzo
Sono stata a lungo combattuta se dare 3 o 4 stelle a questo libro ma alla fine l'originalità dell'idea dello scrittore mi ha spinto a dargli quel punto in più che questo libro merita. Secondo me, il libro si divide in due parti. La prima, in cui vediamo la descrizione della popolazione, delle istituzioni, della chiesa, dello Stato, che reagiscono al lieto evento, non tanto lieto come può sembrare. Questa è stata la parte che ho trovato interessante, perché fa molto riflettere su dinamiche su cui l'umanità non si è forse mai interrogata, pone degli interrogativi nella mente del lettore e per questo ho trovato la lettura molto stimolante. Tuttavia, intorno alla seconda parte, più che altro nella parte finale ho perso un po' l'attenzione perché il libro ha iniziato a prendere una strada che non mi aspettavo, quasi fiabesca e questa forse è stata l'unica cosa che non mi è garbata molto. Mi sento comunque di consigliare questo libro, anche perché non è uno dei più conosciuti di Saramago e secondo me dovrebbe esserlo, quindi se posso contribuire ad ampliare il numero dei conoscitori e dei lettori di questo libro tanto meglio. E' un libro che andrebbe letto, secondo me, anche nelle scuole perché porta il lettore a riflettere ed è questo che la lettura dovrebbe fare.
Recensioni
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«Dove si andrebbe a finire se tutti passassimo a vivere eternamente, sì, dove si andrebbe a finire, domanderà l’accusa usando tutta la sua più bassa retorica, e la difesa, superfluo aggiungerlo, non ha avuto la presenza di spirito per trovare una risposta all’altezza della situazione, neanche lei aveva la minima idea di dove si sarebbe andati a finire.»
Potrebbe forse definirsi un romanzo utopico-filosofico questo ultimo di Saramago, anche se l’autore probabilmente non sarebbe d’accordo. È un viaggio immaginario, alla maniera di Swift, in cui un inesistente Gulliver, la voce narrante, Saramago stesso, racconta da testimone privilegiato un luogo senza tempo e senza coordinate geografiche in cui accade un evento straordinario: l’improvvisa latitanza della morte. Un’utopia che si trasforma in dramma e che, attraverso i vari rivoli della narrazione, propone tragedie singole e collettive legate a un unico tema: l’immortalità.
Un’immortalità che non limita la vecchiaia, che non impedisce la malattia, l’incidente, il coma, la sofferenza, l’handicap, il dolore fisico e morale. Un’immortalità destinata a creare un universo di vittime sempre più anziane e sofferenti, un esercito di incontinenti, un popolo di abitatori di case di riposo (‘le dimore del felice occaso’) e ospedali, in numero sempre crescente rispetto ai giovani che possono accudirli, ormai unica professione immaginabile per il futuro. Di fronte a questa situazione, come reagirà la popolazione sapendo che è sufficiente attraversare il confine per ritrovare una giusta e buona e logica possibilità di morte? Cosa decideranno i parenti dei malati terminali e quali saranno le prese di posizione del governo e della polizia e le valutazioni di tipo etico e religioso, considerando che, se da un lato la ricerca cosciente della morte può considerarsi suicidio o peggio omicidio, senza morte non c’è resurrezione e dunque non c’è Chiesa?
Da tempo Saramago non identifica più i suoi paesi con un nome o un preciso luogo geografico, così come non attribuisce più un nome ai suoi personaggi e i suoi romanzi hanno sempre più assunto un ruolo di riflessione profonda e talora sarcastica sulla nostra condizione sociale, politica e umana, uscendo dal particolare per entrare nell’universale. Per capire il senso di questa scelta sarebbe importante leggere in questa chiave Tutti i nomi, grande anticipazione anche del tema della labile, quasi burocratica linea di confine tra la vita e la morte, in un’ottica senza possibilità di salvezza, sia fisica che metafisica, ma anche Saggio sulla lucidità, capolavoro di narrativa politica: non a caso lo scrittore portoghese si definisce “ormonalmente comunista”.
Poi, all’improvviso, in questo Le intermittenze della morte il racconto lascia il piano collettivo per passare nuovamente a quello individuale, quando la morte si rifà viva, dopo i suoi sette mesi di latitanza, tornando a colpire le sue vittime e facendosi precedere di qualche giorno da una lettera di colore viola che annuncia l’evento, che torna a essere un fatto unico e personale senza via d’uscita. Senonché anche la morte, detentrice assoluta del potere (“io sono la morte, il resto è nulla”), può incappare in un imprevisto, che qui prende le sembianze di un violoncellista: un incidente dai risvolti imponderabili. La morte si fa vulnerabile e donna e, con la complicità di un semplice brano musicale, un brevissimo studio di Chopin, opera 25, numero 9 in sol bemolle maggiore della durata di soli cinquantotto secondi, compie un’azione che credeva impossibile portandoci a un finale bellissimo e travolgente e alla frase ultima, che è anche la prima, e che testimonia come tutto si ripeta senza scampo.
Più che sulla paura della morte è sul terrore della vecchiaia che si incentra il romanzo, terrore che tormenta la nostra società occidentale manifestandosi in vari modi: dalla spasmodica ricerca di un’apparente giovinezza, anche attraverso l’uso di strumenti di tortura come la chirurgia estetica, all’allontanamento degli anziani in luoghi appartati e “invisibili” come, appunto, ‘le dimore del felice occaso’: lontani dagli occhi, dal cuore e dalla memoria. Questo non è dunque un libro sulla morte, ma sulla vita perché non esisterebbe l’una senza l’altra, perché ogni vita terrena è destinata a una fine, ne ha bisogno per la sua stessa esistenza; è così anche per i patriarchi vegetali ai quali sono concessi mille ma non più mille anni.
“La morte è logica, è naturale: ci appartiene. Viviamo per morire e non vivremmo se non morissimo. L’eternità paradossalmente sarebbe infinitamente peggiore”.
A cura di Wuz.it
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