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«Uno dei romanzi che più ho amato in vita mia ... Pubblicandolo nel 1964, anche l'autore avvertì di avere scritto il proprio capolavoro – e aveva alle spalle una meraviglia come "Addio a Berlino" (da cui "Cabaret"). In effetti, si tratta di un testo il cui equilibrio narrativo è praticamente perfetto: perfettamente in bilico tra commozione e distacco – un racconto dove non c'è una virgola di troppo, non una di meno.» – Mario Fortunato
Già negli anni Trenta, quando scrisse «Addio a Berlino», Christopher Isherwood sosteneva di voler trasformare il suo occhio di romanziere nell'obiettivo di una macchina fotografica. Ma per lungo tempo – attraverso libri molto diversi fra loro, e spesso segnati dai personaggi fittizi o reali che raccontavano – l'intenzione rimase una di quelle fantasticherie stilistiche che spesso gli scrittori inseguono per tutta la vita senza realizzarle mai. E invece nel suo ultimo romanzo – questo – Isherwood trasforma una giornata nella vita di George, un professore inglese non più giovane che vive in California, in un'asciutta, e proprio per questo struggente, sequenza di scatti. Non è una giornata particolare per George: solo altre ventiquattr'ore senza Jim, il suo compagno morto in un incidente. Ventiquattr'ore fra il sospetto dei vicini, la consolante vicinanza di Charlotte, la rabbia contro i libri letti per una vita ma ormai inutili, e il desiderio di un corpo giovane appena intravisto ma che forse è già troppo tardi per toccare. Quanto basta per comporre un ritratto che non si può dimenticare, e che alla sua uscita sorprese tutti, suonando troppo vero per non essere scandaloso.
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George ha cinquantotto anni, è professore universitario e vive nella solitudine più completa. Da quando Jim, il compagno, è venuto tragicamente a mancare, non restano altro che la riflessione e la malinconia nella sua vita. Si guarda, si scruta, non si riconosce. Non vede altro che un viso invecchiato e imbruttito, delle guance cascanti, un collo raggrinzito e con la forza della quotidianità e dell’asservimento, ogni mattina, inesorabilmente, indossa la sua maschera e si accinge a vivere quella che è la sua esistenza sino all’inevitabile fine. A questa prima visione interna, si contrappone una seconda visione esterna nella quale al corpo vengono dati ordini, alla bocca viene indicato di parlare, ai piedi di camminare e via dicendo. Un viaggio introspettivo e retrospettivo che si svolge interamente nell’arco di 24 ore e che si dipana per quella che è una quotidianità fatta di maschere e di perbenismo. Perché il volto celato prevale su quello reale, perché la bautta detta le sue regole inesorabilmente. Il perbenismo e l’egoismo prevalente in quella lotta per il non restare solo, il non essere completamente abbandonato a se stesso. Al tutto si contrappone la sua posizione: perché George osserva, critica e se necessario brontola, ma al contempo è anche un docente che rappresenta la speranza, l’ispirazione e la creta su cui i suoi studenti devono lavorare per modellare il loro essere. A ciò si somma ancora il mixarsi di una personalità consapevole della sua età ma che ancora si sente viva e che desidera lasciarsi andare all’impulsività del momento e della spensieratezza. Un elaborato, “Un uomo solo” caratterizzato da istantanee che si alternano tra presente e passato, da riflessioni che cozzano con i desideri, con i sentimenti che sono placati forzatamente, con l’accettarsi e il farsi accettare anche a costo di sacrificare la propria indole e con quelle azioni che portano ad un inevitabile declino. Perché George è un uomo solo, un uomo che vive al confine, un uomo che vive di ricordi e di malinconia ma anche di speranze e di quella sospensione che solo la speranza offre. Ed è mediante una penna fluente, precisa, erudita, ricca, pregiata che il viaggio si compone. Ed è un viaggio che non si può rischiare di perdere per stile e per contenuto. Il linguaggio, in particolare, di Isherwood tocca l’animo del lettore sin dalle prime battute e se anche nella parte centrale l’opera tende leggermente a rallentare, il conoscitore non può fare a meno di interrompere lo scoprire perché non può sottrarsi al sapere.
3) In “Un uomo solo” Christopher Isherwood descrive la giornata di un professore di letteratura inglese, George, sopraffatto dalla morte del compagno e ancora incapace di abituarsi alla piega solitaria che ha preso la sua vita. Isherwood narrando la giornata di George riesce a raffigurare facilmente la consapevolezza dell’ora e dell’oggi e il suo sembra essere un chiaro grido alla vita, da vivere adesso, senza ancorarsi, senza dover tornare ogni secondo al passato o vivere di ciò che potrebbe accadere tra un’ora, domani, o in un anno. Il racconto dell’autore inglese non lascia freni, ma piuttosto apre gli occhi di fronte alla vasta scelta di opzioni che si hanno.
Christopher Isherwood è, a mio avviso, uno dei pochi scrittori in grado di tenere il lettore incollato ad un suo romanzo utilizzando la tecnica della prima persona. Non è facile mantenere alta l'attenzione di chi legge quando si racconta la storia di una giornata semplice, eppure, questo breve romanzo racchiude in poche pagine molto di più. Pensieri, sentimenti, vivi la vita del protagonista attraverso i suoi stessi occhi e alla fine provi ciò che ha provato lui. Toccante e in un certo senso triste nel suo modo di essere vero.
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