Intervista a Edoardo Nesi
Edoardo Nesi torna in libreria con La mia ombra è tua e firma il suo romanzo migliore: il racconto d’una passione incontenibile, e d’un giorno che “vale una vita intera”.
Emiliano De Vito, ventiduenne neolaureato in cerca di un lavoro e Vittorio Vezzosi, scrittore autore di un solo libro ritiratosi a vita privata, sono i protagonisti de La mia ombra è tua, il nuovo libro di Edoardo Nesi. Lo scrittore toscano, vincitore del premio Strega nel 2011, torna con un romanzo attuale attraverso il quale muove alcune critiche alla società contemporanea. Nesi si arma di tanta ironia e ci regala un ritratto epico e comico della nostra società, schiavizzata dai social network e governata dai peggiori demagoghi. Leggere Nesi è sempre una sorpresa e tra le pagine del romanzo restiamo stregati dalla sua capacità nel sorprenderci. La mia ombra è tua contiene il racconto d’una passione incontenibile che abbiamo scoperto grazie all’intervista realizzata in esclusiva.
Leggendo il libro si ha l’impressione che tu ti sia divertito molto a scriverlo. È così?
Scrivere La mia ombra è tua è stata un’avventura molto divertente. Avevo un obiettivo mentre scrivevo: non dare mai l'impressione di sapere dove andasse a finire il libro. Quando si pensa di averlo capito, la storia scappa in un’altra direzione, spiazzando il lettore. Odio quei libri dove dopo 100 pagine riesci già a capire come andrà a finire. Il mio mentore è Raymond Chandler, lui era un vero proprio maestro in questo. I suoi personaggi fanno cose che il lettore non avrebbe mai sospettato, è questo meccanismo di stupore e imprevedibilità che ho inserito nel romanzo.
Che tipo è il Vezzosi, al di là delle sue controverse caratteristiche fisiche?
Mi divertiva molto l’idea di un personaggio che alcuni trovassero molto bello e altri troppo grasso, rovinato e inadeguato. La sua forza è proprio questa dualità, ed è stato molto divertente scriverne. La sua personalità, invece, è quella di un bambino portato improvvisamente a 55 anni d’età. I ragionamenti sono gli stessi del bambino che era fino a un attimo fa, ma in lui c’è un dolore estremo per il tempo perso, un dolore che combatte rifugiandosi in una vita di eccessi e solitudini. A un certo punto non riuscirà più a sopportare la sua situazione e sarà costretto a cambiare.
Odio quei libri dove dopo 100 pagine riesci già a capire come andrà a finire.
Il Vezzosi è un personaggio decisamente riuscito. Ma non sono da meno gli editori, i critici e i docenti universitari che compaiono nel libro. Possiamo leggervi una critica – senz’altro divertente e non malevola - a quello che un altro scrittore toscano, Luciano Bianciardi, chiamava “il lavoro culturale”?
Certamente, anche se il lavoro culturale deve essere rispettato profondamente. Viviamo in un tempo dove si viene criticati anche solo per aver espresso la propria opinione e io questo lo trovo assurdo. È necessario mostrare grande rispetto verso tutte le persone che fanno della cultura la loro vita, perché senza di loro saremmo tutti più poveri. Non mi riferisco solo ai romanzieri, ma anche a chi lavora nell’editoria, ai giornalisti e ai produttori di contenuti. Mi sento molto vicino a questi colleghi e li stimo molto.
Il Vezzosi è un grande collezionista di libri. Cosa hai messo di tuo nella sua libreria?
Io e il Vezzosi condividiamo la stessa fissazione per le prime edizioni in lingua originale dei romanzi di scrittori americani e inglesi. Dopo averli letti è bello poterli osservare e toccare. I libri di carta sono degli oggetti fenomenali e vederli uno accanto all'altro, tutti diversi, nella libreria è splendido. È una delle cose della vita che, ancora oggi, mi emoziona.
Emiliano, il giovane protagonista, non ha l’indole del rivoluzionario ma prima della fine del romanzo compirà comunque una piccola rivoluzione. È stato difficile cogliere i tratti della generazione dei giovani d’oggi?
Ho dovuto fare un grosso sforzo, a 55 anni non è facile analizzare le nuove generazioni. È stato un lavoro duro, ma ci sono riuscito. Emiliano è uno specchio della società, è arrabbiato – giustamente – perché benché abbia avuto un padre che l’ha sempre aiutato, dopo la laurea conseguita a pieni voti non riesce a trovare lavoro. Come tutti i suoi amici, del resto. Questa è la vera tragedia del nostro momento storico: quando nemmeno quelli più bravi riescono a trovare lavoro, significa che il paese è in grave difficoltà.
Finire un romanzo significa soprattutto riuscire a superare le proprie incapacità.
“I lupi dentro” non esiste. Ma se un giorno decidessi di scriverlo, che storia sarebbe?
I lupi dentro è uno scherzo. È un romanzo che non esiste. Ma voglio rivelarvi un segreto: I lupi dentro era il titolo che avevo scelto per il mio primo romanzo – quello che poi è diventato Fughe da fermo - finché un amico mi disse: «… sembra il titolo di una canzone di Malgioglio». Pensai che avesse ragione e decisi di cambiarlo ma ne fui addolorato perché è una frase molto forte. L’ha detta anche Jim Morrison: «Le poesie hanno i lupi dentro, salvo una: la più meravigliosa di tutte. Lei danza in un cerchio di fuoco e si sbarazza della sfida con una scrollata». Mi ero ripromesso di inserirla in un romanzo alla prima occasione. È una cosa che sapete solo voi, eh!
In questo romanzo i social network hanno un grande peso…
I social mi fanno molta paura per il modo in cui sono capaci di impadronirsi di un argomento e farlo diventare virale, e tutti improvvisamente ne parlano, anche chi non ne sa assolutamente nulla. Questa mancanza di profondità mi inquieta, così ho deciso di raccontarla, in modo molto ironico. Mi incuriosisce quel meccanismo che permette alle persone di diventare famose grazie a una storia su Facebook o Instagram. Mi sono divertito a prendere in giro questi meccanismi.
Secondo un celebre calembour arbasiniano, in Italia gli scrittori attraversano tre fasi distinte: la giovane promessa, il venerato maestro, il solito stronzo. Nel tuo romanzo hai dato rappresentanza – attraverso le figure di Vezzosi e di Emiliano – a tutte queste fasi…
Conosco molto bene quella massima. Per quanto riguarda me, non saprei dire a quale fase sono giunto, ma è molto interessante rendersi conto di come la vita di uno scrittore possa essere terribilmente difficile. Da una parte è il mestiere più bello del mondo, dall'altra a volte ti mette di fronte alle tue assolute incapacità, come quando vai a letto credendo di aver fatto un buon lavoro e la mattina dopo rileggi e scopri di aver combinato un disastro e butti via tutto. Finire un romanzo significa soprattutto riuscire a superare le proprie incapacità.
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Edoardo Nesi, Sceneggiatore, regista, romanziere e traduttore, ha iniziato la sua attività traducendo racconti, saggi e romanzi di autori come Bruce Chatwin, Malcom Lowry, Stephen King e Quentin Tarantino. Ha pubblicato i romanzi Fughe da fermo, Ride con gli angeli, Rebecca e Figli delle stelle, tutti per Bompiani. Ha scritto e diretto il film Fughe da fermo (Fandango, 2001), ha tradotto le 1433 pagine di Infinite Jest di David F. Wallace e ha fatto andare avanti l'azienda tessile di famiglia fino al settembre 2004, momento in cui ha deciso di venderla per dedicarsi a tempo pieno all'attività di scrittore. Sulla sua parabola di "imprenditore in Prato", sugli effetti perversi della globalizzazione e il modo in cui si sono accaniti sul tessile italiano, Nesi ha scritto e pubblicato (con Bompiani, nel 2010) Storia della mia gente, con il quale ha vinto il premio Strega 2011, Le nostre vite senza ieri (2012) e L'estate infinita (2015).