Enrico Ruggeri: «Non troverò mai l’equilibrio fra falco e gabbiano. E questa è la mia salvezza»
Album numero trentacinque per Enrico Ruggeri. Sempre pronto a sperimentare e a mettersi in gioco, il cantautore milanese torna sulla scena con una proposta originale, meditata, profondamente personale. Undici inediti da apprezzare nota per nota, verso per verso.

Alma
Enrico Ruggeri
Solo grandi numeri per Enrico Ruggeri. Quarantasette anni di carriera nel mondo della musica, trentacinque album, più di quattrocento canzoni, undici partecipazioni al Festival di Sanremo, due vittorie. Ma il nostro non si accontenta di una onorevole carriera di musicista. Dodici libri pubblicati, tra noir, racconti, poesie e varia. Sette programmi televisivi condotti (e come non ricordare anche la partecipazione in qualità di giudice alla quarta edizione di X Factor?). Voce di “Il falco e il gabbiano”, la trasmissione radiofonica trasmessa da Radio 24… Insomma, non possiamo certo accusare Ruggeri di essersi adagiato sui successi raggiunti! E a tre anni dall’ultimo album solista – ma non crediate che intanto si sia riposato – eccolo tornare con “Alma”, un album profondo, impegnato, colto. Un album importante.
“Alma”, un titolo appena dissimulato dalla lingua spagnola per parlare di cose importantissime. Che disco hai fatto?
“Alma” è un disco particolare per me. L'ho vissuto come un'opera prima pur essendo – ahimè – il trentacinquesimo. Non mi era mai capitato di lasciar passare tre anni dal mio ultimo lavoro come solista, anche se in questo intervallo ci sono stati due album coi Decibel, due tour e il Festival di Sanremo.
Ho cercato molto un suono che fosse il più possibile personale. Ho evitato la preproduzione e, come hanno fatto migliaia di musicisti per decenni, sono semplicemente andato in studio con i ragazzi della band, ho spiegato loro le canzoni, abbiamo iniziato a suonarle e le abbiamo registrate.
Trentacinque album all'attivo, più di quattrocento canzoni scritte: sono numeri da musica di una volta, e spesso nelle tue interviste ti definisci un artista poco in linea con questi tempi… Che cosa è successo all'arte di ascoltare dischi?
L'arte di ascoltare i dischi sopravvive ma è diventata appannaggio di un'élite. Il rock, che negli anni sessanta era la ribellione di una generazione nei confronti di un'altra, è diventato qualcosa di diverso… I sessantacinquenni che negli anni ottanta avrebbero potuto essere ai miei concerti erano persone nate nel 1915, con poche possibilità di essere ricettive nei confronti della mia musica. I sessantacinquenni di oggi, invece, sono nati nel 1954: avevano 11 anni quando i Rolling Stones hanno scritto “Satisfaction”, ne avevano 16 quando è morto Jimi Hendrix. Non stupisce, quindi, che oggi il rock non sia più appannaggio di una sola generazione, ma di persone più esigenti e intellettualmente superiori.
Alma è un disco particolare per me. L'ho vissuto come un'opera prima pur essendo – ahimè – il mio trentacinquesimo album.
Tuo figlio Pico ti ha dato lo spunto per la canzone di apertura del disco "Come lacrime nella pioggia". Come avete lavorato insieme?
Mio figlio è un tipo particolare. Ha fatto tre album interessanti, ma adesso non ne ha più voglia: non gli piace tutto quello che accade dal minuto successivo alla pubblicazione di un disco. Però continua a scrivere canzoni e un giorno mi ha fatto sentire un pezzo che attaccava con una frase per me stimolante: “La paura che mi prende parte dal profondo di me". Poi ho semplicemente messo un po' a posto la musica e sono andato avanti a scrivere il testo. Da padre sono orgoglioso, ma dal punto di vista lavorativo, in effetti, non c’è stato un contatto troppo stretto…
La storia cui dai voce ne “Il pallone” – assieme a Ermal Meta – è quella di Iqbal, ragazzo pakistano che cuciva tappeti e che osò ribellarsi agli sfruttatori del lavoro minorile, morendone. Ci racconti com’è nata questa canzone?
Nella mia trasmissione su Radio 24 mi è capitato di approfondire la storia di Iqbal Masih, una storia terribile che parla di schiavitù minorile. Nella mia canzone, però, ho scelto di non parlare di tappeti ma di un pallone, perché volevo raccontare una storia a tre strati. Volevo che il pallone fosse simbolo non solo del riscatto sociale di alcune superstar – Messi, Cristiano Ronaldo – ma anche dei sogni di tutti i bambini che giocano in un cortile immaginando già gli stadi pieni e di quei bambini che i palloni li fanno, ma cui non viene data la possibilità di giocarci. Ne è nata una canzone particolarmente ispirata, e per parecchi motivi mi è venuto in mente Ermal, uno dei pochi cantanti che frequento. Un amico, un ragazzo in cui – anche se abbiamo vent’anni di differenza – riconosco tante cose di me.
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“L’amore ai tempi del colera” evoca sin dal titolo un omaggio al padre del realismo magico, Gabriel Garcia Marquez…
La canzone è chiaramente ispirata al libro di Marquez, ma è anche un pezzo sulla rabbia come motore di riscatto. Florentino, il protagonista, vive tutta la sua vita e la sua ascesa sociale con veemenza, sia per dimostrare alla donna che ama che ce l'ha fatta sia per farsi trovare pronto qualora riuscissero – come avviene – a riunirsi. Sicuramente, come in questo caso, la letteratura è più affascinante della vita: se Florentino avesse sposato quella ragazza a 20 anni probabilmente già a 26 sarebbe andato all'osteria a lamentarsi con gli amici – e lei con le amiche – ma, poiché non è stata vissuta così, la storia diventa meravigliosa.
Altra immagine letteraria è quella che dipingi in “Cime tempestose”. Non solo Brontë, però, perché fra quei versi fa capolino anche Jane Austen, con “Orgoglio e pregiudizio”. Tanta letteratura femminile, insomma. Cosa evoca, oggi, la parola “donna” in Enrico Ruggeri?
La parola “donna” evoca conflitto perché è sempre difficile volersi bene, vivere cercando il bene dell'altra persona, che spesso non è conciliabile con il nostro. Ma possiamo anche dire – come è – che la donna, oltre che una compagna per la vita (per chi ha voglia di imbarcarsi nell’avventura), è il meraviglioso universo, il grande stimolo grazie al quale tanti hanno avuto voglia di dipingere, scrivere libri o canzoni, che altrimenti non sarebbero mai nati.
“Forma 21” evoca il tema della fine, ma in modo lirico. La morte oggi è dappertutto, come sempre, ma sembra che l’arte non se ne debba più occupare. Perché questa rimozione?
Come ha detto recentemente Luca Carboni, la morte non solo non è un argomento pop, ma è anche un tema rimosso dal nostro linguaggio quotidiano. Quando una persona muore diciamo “si è spento”, “ha cessato di vivere” … Sembra che abbiamo paura di pronunciare la parola stessa! “Forma 21”, invece, affronta il tema e lo fa a partire dalla lettera che Laurie Anderson, la moglie di Lou Reed, ha scritto dopo che suo marito è morto, tra le sue braccia, mentre eseguiva la forma 21 del Tai Chi. Laurie scrive di aver visto nei suoi occhi lo stupore. Ed è proprio questo il dato comune: lo stupore, come se ci si rendesse conto di qualcosa di immenso che non si può raccontare. Un grande afflato di speranza in un momento così arcano e supremo, che io ho voluto raccontare col sorriso sulle labbra.
La parola ‘donna’ evoca conflitto perché è sempre difficile volersi bene, vivere cercando il bene dell'altra persona, che spesso non è conciliabile con il nostro.
Frequenti la pagina scritta da molto tempo, e nel tuo lavoro di cantante – ma anche di scrittore e di conduttore radiofonico – si sente la tua passione per le storie. A tuo avviso, quali sono gli ingredienti che rendono davvero saporita una storia?
Per rendere saporita una storia bisogna saperla raccontare. Basta un esempio: sembra abbastanza banale dire “un ragazzo indebitato ammazza una vecchia”, eppure è la trama di “Delitto e castigo” …
Tutte le storie possono essere interessantissime: la vita di ogni persona può essere oggetto di un libro, un film, una canzone, diventare letteratura, ma bisogna provarci, usare il lessico giusto, avere la capacità di vedere una situazione nei suoi differenti aspetti.
Il falco è il predatore, la picchiata rapace. Il gabbiano è il sogno, è quel che immaginiamo appena al di là dell’orizzonte visibile. Hai trovato un equilibrio fra questi due modi di volare?
Non lo troverò mai, ma credo sia proprio questa la mia salvezza. È la mia dicotomia, che mi consente di star bene anche facendo cose molto diverse: andare a teatro, fare lo chansonnier, parlare, ma anche andare in un club, in una piazza o in un campo sportivo, tenere il piede schiacciato sull'acceleratore. E nei due tour che stanno per partire questa mia dicotomia sarà ancora più estrema.
Per concludere questa nostra chiacchierata ci piacerebbe ci lasciassi qualche consiglio di ascolto e di lettura…
È difficile dare dei consigli sui dischi. Io cerco di farlo in maniera subliminale nella mia trasmissione radiofonica, quando infilo “a sogliola” canzoni degli anni sessanta, settanta, ottanta. Non oltre il 1983-84. In quei decenni, a mio parere, c’è di tutto. Per chi ama il rock, ci sono i Deep Purple, i Led Zeppelin. Per chi è un raffinato dandy, i Roxy Music. Per chi vuole spaccarsi il cuore in due, David Bowie e Lou Reed.
Parlando di letture, invece, confesso che il libro della mia vita è “Opinioni di un clown” di Henrich Böll e posso aggiungere che la letteratura russa è molto più piacevole di quanto la gente immagini senza averla letta.
Per alleggerire, invece, leggo biografie. Mi piacciono molto e ultimamente, in particolare, ho apprezzato “Life” di Keith Richards, la sua autobiografia. Il libro di un uomo di spirito e di cultura, che tra l’altro scrive molto bene. Una bella scoperta.
Enrico Ruggeri (Milano 1957) Nel 1972, a 15 anni, fonda il suo primo gruppo, gli Josafat, che nel 1974 si trasformano in Champagne Molotov. Nel nascono i Decibel, con cui incide nel 1978 il primo album "Decibel". Il successo arriva con la partecipazione a Sanremo con il brano "Contessa" e l'album "Vivo da re". Nel 1981 Enrico Ruggeri intraprende la propria carriera solista e pubblica l'album "Champagne Molotov". In questo periodo Ruggeri lavora anche come autore di alcuni cantanti pop. È del 1983 l’album "Polvere" e la single-track omonima si piazza al secondo posto al Festivalbar di quell’anno. Il brano "Il mare d'inverno" è portato al successo da Loredana Bertè, e lo impone come autore di eccellenza, aprendo gli orizzonti artistici di Ruggeri verso il genere cantautorale, pur senza rinnegare la matrice rock. Al Festival di Sanremo 1986 ottiene il premio della critica per "Rien ne va plus". Ruggeri diventa uno degli autori più ricercati da numerose interpreti femminili, tra cui Fiorella Mannoia e Loredana Bertè. Nel 1987 si ripresenta a Sanremo con Gianni Morandi e Umberto Tozzi con il brano "Si può dare di più" che vince la manifestazione. Sempre in quell'anno è premio della critica a Sanremo "Quello che le donne non dicono" cantata da Fiorella Mannoia...