Helena Janeczek: «Sono stata adottata dalla lingua italiana»
Helena Janeczek, Premio Strega 2018 con “La ragazza con la Leica”, torna in libreria con “Cibo”, un romanzo pubblicato per la prima volta nel 2002 ma perfettamente in grado di leggere e restituirci la realtà di oggi. Tra diete alimentari, piatti preferiti, ricette tradizionali e abitudini familiari, Janeczek ci aiuta a scoprire che il cibo è nostalgia e memoria, è malattia e rifugio. Perché il cibo è noi.

Cibo
Helena Janeczek
Helena Janeczek. Nome straniero. Origini ebreo-polacche.
Monaco di Baviera è la città della sua infanzia e adolescenza. Il tedesco la sua madrelingua.
Eppure, il suo romanzo d’esordio, “Lezioni di tenebra” – vincitore del Premio Bagutta Opera Prima – è stato scritto in italiano. Eppure, l’anno scorso ha vinto il più prestigioso riconoscimento della narrativa italiana, il Premio Strega, con il suo “La ragazza con la Leica”, l’epico e partecipe racconto della vita di Gerda Taro, leggendaria fotografa del Novecento.
Trent’anni in Italia non sono pochi, ed Helena Janeczek, la scrittrice definita ius linguae, la scrittrice che ha scelto l’italiano come “lingua madre adottiva”, è venuta in IBS a firmare per voi le copie della nuova edizione di “Cibo”, libro più che mai attuale, circondati come siamo da tornei culinari, mode e teorie alimentari. Ripercorrendo, insieme a Helena, le pagine di “Cibo”, abbiamo voluto esplorare questo universo, lasciandoci trasportare dai suoi e dai nostri ricordi. Perché una ricetta – forse come poche altre cose – può rappresentarci e legarci alla nostra storia.
Quale sarà quella scelta da Helena?
Benvenuta Helena. Ti va di raccontarci qualcosa di “Cibo”?
“Cibo” non è né un libro nutrizionista né un libro di ricette. È un romanzo – con una componente di autofiction – che cerca di raccontare cos’è per noi il cibo, seguendo il filo conduttore dell’amicizia tra una giovane donna a dieta e la sua massaggiatrice ed estetista.
Nel libro emergono situazioni nelle quali si instaura un rapporto malato col cibo, come nel caso dei disturbi alimentari. Ma il cibo non è solo questo. È soprattutto memoria, senso di appartenenza, emozione, traccia nei nostri corpi di quei sapori, di quelle ricette che arrivano dall'infanzia e sono occasioni di contatto con un mondo primario e indimenticabile.
Dal 2002 – anno in cui “Cibo” è apparso per la prima volta nelle librerie – al 2019 la percezione del nostro rapporto con il mangiare è profondamente cambiata. Cosa ne pensi?
Credo che in alcuni casi, effettivamente, ci sia stato un cambiamento. Spesso ciò di cui parlo in “Cibo”, però, è andato avanti nella direzione che avevo prefigurato. I disturbi legati all'alimentazione sono aumentati: da una parte sono diventati più noti, dall’altra sono stati banalizzati. Ma si sono aggiunti anche altri aspetti più legati alla percezione identitaria del cibo, alla salvaguardia delle tradizioni alimentari. C’è qualcosa nei nostri stili di mangiare che è diventato un fattore con cui ci identifichiamo tantissimo. A volte anche in maniera eccessiva. Basta pensare alle reazioni di antipatia che spesso i vegani suscitano nel “comune onnivoro”…
Il cibo è memoria, senso di appartenenza, traccia in noi di quei sapori che arrivano dall'infanzia e sono occasioni di contatto con un mondo primario e indimenticabile.
“Cibo” è un racconto sul corpo e sul rapporto che il corpo intrattiene con la sua fonte primaria di energia. Ma il cibo, come hai sottolineato, è anche veicolo di emozioni e ricordi. Quale ricetta o piatto sceglieresti per raccontare Helena al mondo?
Tra quelle raccontate nel libro, innanzitutto le cime di rapa. Le ho conosciute venendo in Italia grazie alla mia futura suocera e sono state l’inizio di una tradizione culinaria che ho ereditato, assimilato e imparato a replicare. Poi le aringhe olandesi matjes: un must delle ricorrenze ebraiche. Una tradizione che però ho scoperto tardissimo, al funerale di mio padre.
Qual è, invece, il cibo che non vorresti mai trovare nel tuo piatto?
Non riuscirei a nutrirmi di quegli animali – come il gatto o il coniglio – per cui provo affetto, o che ho posseduto. E non vorrei mai assaggiare un delfino. Poi ci sono dei cibi dai quali non mi sento particolarmente attratta... gli insetti fritti, ad esempio, mi fanno un po’ impressione.
Qualche tempo fa hai preso la cittadinanza italiana. Igiaba Scego ti ha definito una scrittrice ius linguae, che ha scelto l’italiano come la lingua in cui esprimersi. Sei d'accordo? Che cosa ti piace dello scrivere in italiano?
Vivo in Italia da trentacinque anni. Scrivo in italiano perché è la lingua che sento più mia. Per scelta, ma non solo. Spesso mi è capitato di definirlo “lingua madre adottiva”: non sono io ad aver adottato l’italiano, ma l’italiano ad aver adottato me.
Sento che per riprendere a scrivere in tedesco dovrei ricominciare tutto daccapo, magari anche trasferirmi in un paese germanofono per rientrare in contatto con la lingua.
Per approfondire |

La ragazza con la Leica
Helena Janeczek

Le rondini di Montecassino. Nuova ediz.
Helena Janeczek

Lezioni di tenebra
Helena Janeczek

Bloody cow
Helena Janeczek

I vagabondi
Olga Tokarczuk

Piccola città. Una storia comune di eroina
Vanessa Roghi
Nel libro col quale hai vinto il Premio Strega nel 2018, “La ragazza con la Leica”, racconti un'esemplare parabola femminile e antifascista. Che cos'è oggi il fascismo, a tuo parere?
Oggi il fascismo è una cosa con cui vale la pena confrontarsi in modo serio, così da scoprire affinità e divergenze con le tendenze di estrema destra che si manifestano oggi. Avere una coscienza della storia, ragionare e conoscere certe dinamiche – come quelle che hanno portato alla formazione dei Fasci di combattimento in Italia – serve anche per capire che cosa c'è di nuovo oggi nell'aria.
Hai un figlio giovane, come lo prepari ad affrontare le contraddizioni che questa società gli metterà sul piatto?
Sono pronta a sostenerlo se ha bisogno, ma sono molto interessata a capire come lui vede il mondo. Anche perché ho la sensazione che lui – come gli altri ragazzi della sua generazione – sappia di non avere certezze davanti, che non può aspettarsi soluzioni facili. Spesso però questi ragazzi ostentano una sorta di allegro disincanto: non sono una generazione rassegnata e soprattutto hanno dei loro codici, una loro cultura. Una cultura “mista”. Sono i primi, d’altronde, per cui andare a scuola e crescere con bambini di ogni origine è stata una cosa normale, soprattutto nell’Italia del Nord.
Per concludere, hai voglia di lasciarci qualche consiglio di lettura?
Da poco ho cominciato a leggere “I vagabondi” di Olga Tokarczuk – il romanzo vincitore del Man Booker International Prize – che mi sembra molto bello. Un altro libro letto di recente che mi sento di consigliarvi è “Piccola città” di Vanessa Roghi. Un testo che ripercorre la storia dell’eroina in Italia.
Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera da una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre trent’anni. Poetessa e scrittrice, ha esordito con la raccolta di poesie in lingua tedesca "Ins Freie" (Suhrkamp, 1989), mentre ha scritto in italiano il suo primo romanzo, "Lezioni di tenebra" (Guanda 2011, Premio Bagutta Opera Prima), che racconta del viaggio compiuto ad Auschwitz insieme alla madre, che lì era stata prigioniera con il marito. È inoltre autrice dei romanzi "Cibo" (Mondadori, 2002; Guanda, 2019), "Le rondini di Montecassino" (Guanda, 2010), finalista al Premio Comisso e vincitore del Premio Napoli, del Premio Sandro Onofri e del Premio Pisa. Nel 2017 esce per Guanda "La ragazza con la Leica", romanzo incentrato sulla fotografa Gerda Taro, vincitore del Premio Strega 2018. È redattrice di «Nuovi Argomenti» e di «Nazione Indiana».