Marco Malvaldi: «Sono arrivato a Milano ripercorrendo il cammino di Leonardo»
Malvaldi in Lombardia? Non è uno scherzo! Con il romanzo “La misura dell’uomo” l’autore pisano lascia le amate terre di Toscana e approda a Milano. Ma non crediate abbia cambiato abitudini: anche qui un cadavere, una morte misteriosa su cui investigare e un detective assolutamente fuori dagli schemi. A chi pensate se vi diciamo: “il più grande genio di tutti i tempi”?

La misura dell'uomo
Marco Malvaldi
Niente Pineta e niente BarLume. Stavolta dimenticate Massimo, Ampelio, Gino, Aldo e Pilade. In “La misura dell’uomo”, l’investigatore è d’eccezione: è il grande Leonardo da Vinci. Non avete capito male: parliamo proprio dell’autore della Gioconda e del Codice Atlantico!
Siamo nella Milano del Rinascimento, la città dominata da Ludovico il Moro, una città che vive di arte e scienza, una città all’improvviso turbata da un inspiegabile omicidio. E il genio toscano, circondato dalla famiglia, mostra tra le pagine di Malvaldi un volto e un piglio inedito. Ma non temete: il lavoro di ricostruzione storica è solido e ben documentato e la lettura delle pagine di “La misura dell’uomo” vi catapulterà nella Milano dell’epoca, tra signori e cortigiani, popolani e nobildonne in lite per la precedenza sulle strette carreggiate cittadine. Un mondo di broccati e castelli che abbiamo voluto scoprire insieme a Marco Malvaldi. Perché tra post-verità, traffico e fake news, la Milano di Leonardo e Ludovico il Moro ci ricorda sempre di più quella di oggi.
Buongiorno Marco, siamo ormai in odore di cinquecentenario dalla morte di Leonardo da Vinci, ti va di raccontarci qualcosa de “L’a misura dell’uomo”, il tuo romanzo sul genio toscano?
La Milano di Ludovico il Moro, in cui ho ambientato il mio romanzo, è un posto fantastico in cui vivere. In quegli anni, infatti, vi si trasferiscono molti artigiani, pittori, artisti, scultori e, fra questi, Leonardo da Vinci, il più grande genio di tutti i tempi. Purtroppo, nel periodo in cui vive a Milano, Leonardo ha due incubi: uno è lo stesso Ludovico il Moro, l’altro è la statua equestre commissionatagli dal duca.
A un certo punto della vita milanese di Leonardo, però, immagino che all'interno del Castello Sforzesco venga ritrovato un cadavere. Leonardo – il massimo esperto di anatomia dei suoi tempi – è chiamato a indagare su chi è il morto e sulle ragioni del suo decesso. È chiaro che si tratta di un omicidio, altrimenti non sarebbe un mio libro.
Dal BarLume di Pineta al Castello Sforzesco di Milano la strada è lunghetta. Cosa ti porta tra queste terre brumose?
Sono arrivato a Milano ripercorrendo il cammino del mio conterraneo. Nel 1483 Leonardo, spedito da Lorenzo il Magnifico, parte da Firenze e arriva a Milano per portarvi l’arte e la pittura toscana. Si fermerà nella città meneghina vent'anni. Un periodo fondamentale perché diventi il "Leonardo da Vinci" che conosciamo oggi. Quando arriva a Milano, infatti, Leonardo è solo un promettente allievo del Verrocchio, quando riparte, invece, è il più grande artista d'Europa e quindi, essendo il Cinquecento, del mondo.
Quando arriva a Milano Leonardo è solo un promettente allievo del Verrocchio, quando riparte, invece, è il più grande artista d'Europa e quindi del mondo.
Racconti il personaggio di Leonardo con dovizia di particolari: la battuta tagliente, l’intelligenza prontissima, l’ingegno multiforme, ma mostri bene anche le persone che gli sono più vicine: la mamma Caterina e il suo pupillo, il Salaì. A che fonti hai attinto per immaginare questi personaggi?
Durante la sua permanenza a Milano, Leonardo non vive da solo, ma circondato dalla famiglia, che ruota essenzialmente intorno a due personaggi: la madre Caterina e l'amico Gian Giacomo Caprotti, detto il Salaì, il Saladino.
La madre di Leonardo compare già in un altro romanzo, "Leonardo da Vinci" di Dimitri Merežkovskij, ma è abbastanza certo, a partire dagli studi di Luca Beltrami di inizio Novecento, che Leonardo a Milano vivesse davvero con lei. Caterina era presumibilmente una schiava affrancata, dunque, con molta probabilità, una persona affatto banale: la vita fra i due doveva essere abbastanza scoppiettante.
Per quanto riguarda il Caprotti, il Salaì, è Leonardo stesso a definirlo un «bugiardo, ladro, ostinato, ghiotto», ciononostante gli vuole un bene dell'anima e ha nei suoi confronti un atteggiamento più vicino a quello di un padre verso il figlio che non a quello di un amante verso l'amato. Il Salaì, d’altronde, sarà al suo fianco per tutta la vita e, nonostante il matrimonio e alcuni figli, continuerà a vivere insieme a lui e a tutti loro nella stessa casa.
Lo sfondo del tuo romanzo è Milano nel pieno Rinascimento. Che clima si respirava in città?
La Milano rinascimentale ha avuto la fortuna di essere guidata da Ludovico il Moro, un governante che è riuscito a tenere lontano le guerre per più di vent'anni, grazie a un mix di sapienza politica, intelligenza diplomatica e finanziaria e… una certa dose di “culo”.
Questa bolla di pace ha fatto sì che l’arte e molte scienze speculative siano state costrette a confrontarsi con l'applicazione. C’è un continuo trasferimento di sapere da filosofia, scienza ed empirismo alla tecnologia, si tenta di sistematizzare nell’uso e di applicare alla vita di tutti i giorni ciò che si è scoperto e quello che si tenta di scoprire in termini teorici: è questo uno dei segreti del Rinascimento milanese.
Nel Rinascimento era abbastanza comune servirsi della post-verità, o meglio, dire una cosa in termini apparentemente gentili ma, in realtà, bastonare alle caviglie.
A dispetto di tutto questo inventare, scoprire e consolidare non siamo ancora riusciti a risolvere un problema che esisteva già nei tempi di cui parli: il traffico.
Il traffico è un problema tutto milanese già nel Rinascimento. Un problema che nasceva dal fatto che gli uomini si spostavano a dorso di mula, mentre le donne, in particolare le nobili, si facevano trasportare su carrette trainate da quattro giumente. Carrette che avevano una larghezza appena minore di quella della strada in cui dovevano passare. Due carrette provenienti da direzioni opposte, dunque, erano sufficienti a creare un ingorgo. Per di più non si poteva sperare in nessun aiuto da parte di chi stava intorno alle due dame impegnate a insultarsi e a chiedersi la precedenza. Attenzione, però, la folla non era affatto indifferente, faceva una cosa ben diversa: scommetteva su chi sarebbe passata per prima. Tutto il mondo è paese e quel paese è Milano.
Nel romanzo fai una bellissima prolusione sul linguaggio rinascimentale e sul modo particolarmente creativo con cui chiunque si muoveva a corte tendesse a infiorettare la verità.
Nel Rinascimento era abbastanza comune servirsi della post-verità, o meglio, dire una cosa in termini apparentemente gentili ma, in realtà, “bastonare alle caviglie”.
Di fronte a una decisione del principe o dell’ambasciatore, infatti, un sottoposto non avrebbe mai potuto permettersi di contestarla direttamente, ma era costretto a servirsi di un incrocio di fioretti verbali, che tuttavia gli consentiva di dire in modo molto educato e rispettoso anche delle cose tremende. E molto spesso la differenza sociale tra due persone si vedeva proprio nella quantità di parole che una di loro era costretta a usare nei confronti dell'altra per fargli notare che aveva preso una cantonata.
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Siamo in territorio di post-verità. Nel tuo recente “Per ridere aggiungere acqua”, scrivi: “Il gioco, come il riso, nasce dalla capacità di separare realtà e finzione. Ed è questa capacità che ci rende umani prima di tutto”. È un commento caustico sulla recente tendenza alle fake news?
È un fatto che oggi viviamo immersi nelle fake news ed è necessario sapere distinguere il vero dal falso, tenendo conto che il falso molto spesso è quasi vero oppure risulta vero e coerente se prendiamo in esame il piccolo mondo all’interno del quale ci viene presentato. Spesso è solo quando ci soffermiamo a considerare il sistema un po’ più ampio che il falso crolla. Basta pensare a quello che è successo con l’allunaggio. C’è addirittura chi ha ipotizzato che l’uomo non sia mai andato sulla Luna, ma – mi chiedo –, se all’epoca i sovietici avessero minimamente subodorato che c’era qualcosa che non andava, quanto tempo ci avrebbero messo per denunciare al mondo la falsità dell’annuncio americano? E invece due settimane dopo l’evento i sovietici smantellavano il loro programma di allunaggio...
Spesso per capire dove sta una fake news bisogna guardare un po’ oltre il nostro orticello.
Dal 2017 fai parte del CICAP, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze. Ci racconti qualcosa delle attività del comitato?
Sono orgoglioso membro onorario e fattivo del CICAP. Negli anni, però, il comitato è cambiato: un tempo la “p” finale stava per “paranormale”; oggi, invece, ciò che fa più paura a chi ragiona non è il paranormale, ma le pseudoscienze, in continuo cambiamento. Anche l’attività del CICAP, dunque, è cambiata: tempo fa, ad esempio, si preoccupava molto di omeopatia e rimedi naturali, cercando di ricordare a tutti che “naturale” non vuol dire per forza “buono” e che considerare “non naturale” un prodotto dell’intelligenza e della capacità manuale dell’uomo è un po’ rischioso. In questo momento, invece, il comitato si concentra sulle pseudoscienze, da cui siamo circondati, tra cui tante fake news.
Il modo più efficace per contrastarle? A mio parere non è tanto la conoscenza scientifica quanto il sapere dei filologi classici o romanzi, cioè di quegli studiosi che sanno come una frase può imbastardirsi o cambiare significato semplicemente per un effetto simile a quello del “telefono senza fili”.
Prima di concludere, hai voglia di lasciarci qualche consiglio di lettura?
Uno dei romanzi più belli che ho letto negli ultimi tempi, forse il romanzo più bello che ho letto quest’anno, è "Gli scellerati" di Frédéric Dard, noto al grande pubblico per essere il papà del commissario Sanantonio, una delle icone degli anni settanta, una specie di 007 in salsa francese.
Agli inizi della sua carriera, però, Dard ha scritto anche alcuni romanzi eccezionali, fra cui proprio "Gli scellerati", uno di quei rari noir in cui il significato del romanzo si comprende solo nelle ultime righe dell’ultima pagina e chi lo legge è spinto a tornare indietro per rivedere quelle parti che lo hanno “fregato” e ammettere che non era stato in grado di capirle.
Se poi vogliamo “riscattarci” dalla lettura di un romanzo noir, il consiglio migliore che vi posso dare è di leggere "Sapiens" dello storico israeliano Yuval Noah Harari. Un saggio che descrive il motivo per cui noi Homo sapiens, pur essendo meno intelligenti, meno forti e avendo meno vantaggi rispetto ai nostri diretti concorrenti sulla scala evolutiva, i Neanderthal, abbiamo vinto la lotta dell’evoluzione.
Marco Malvaldi è nato a Pisa dove vive tutt'ora. Dopo la laurea in chimica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, e contemporanei studi di conservatorio, ha provato a fare il cantante lirico, ma ha abbandonato dopo poco. Esordisce nella narrativa nel 2007 con la serie dei vecchietti del BarLume, pubblicata da Sellerio: "La briscola in cinque", 2007; "Il gioco delle tre carte", 2008; "Il re dei giochi", 2010; "La carta più alta", 2012; "Il telefono senza fili", 2014; "La battaglia navale", 2016; "A bocce ferme", 2018. Da questa serie a partire dal 2013 è stata tratta una serie televisiva. Ha pubblicato anche "Odore di chiuso" (Sellerio 2011, Premio Castiglioncello e Isola d’Elba-Raffaello Brignetti), giallo a sfondo storico, "Milioni di milioni" (Sellerio 2012), "Argento vivo" (Sellerio 2013), "Buchi nella sabbia" (Sellerio 2015) e i saggi "L' architetto dell'invisibile ovvero come pensa un chimico" (Cortina Raffaello 2017), "Le due teste del tiranno. Metodi matematici per la libertà" (Rizzoli 2017) e "Per ridere aggiungere acqua. Piccolo saggio sull'umorismo e il linguaggio" (Rizzoli 2018) Suoi racconti sono inclusi nelle antologie di Sellerio: "Un Natale in giallo" (2011), "Capodanno in giallo" (2012), "Ferragosto in giallo" (2013), "Regalo di Natale" (2013), "Carnevale in giallo" (2014). Nel luglio 2013 vince il Premio letterario La Tore Isola d'Elba.