Alessandro Robecchi: «Terrò in vita il mio Monterossi finché non arriverò a detestarlo»
Ci risiamo. Per la sesta volta. Carlo Monterossi è tornato. Ed è tornato con una storia che si apre su un omicidio, una scomparsa e una donna ambigua e misteriosa. Una donna che nasconde molti segreti e dice tante bugie. È una storia che scorre su due binari, forse destinati a intrecciarsi. Perché in questi “tempi nuovi”, si sa, ogni certezza è sempre più precaria.

I tempi nuovi
Alessandro Robecchi
Definire “poliedrico” Alessandro Robecchi è riduttivo. Stampa, periodici, televisione, radio, libri… Quando si tratta della parola nelle sue accezioni più varie ed eterogenee, Robecchi gioca a tutto campo! Esperto di musica, ha collaborato al mensile "Il Mucchio Selvaggio" e scritto un saggio di grande successo su Manu Chao. Ma il suo cammino tra i libri non si è fermato lì: nel 2014 ha esordito nella narrativa con il noir “Questa non è una canzone d’amore”, il primo libro della serie che vede protagonista Carlo Monterossi, né carabiniere, né poliziotto, ma fortunato autore di programmi televisivi (che in realtà disprezza). Una serie di successo ormai arrivata al suo sesto episodio, “I tempi nuovi”. Ed è proprio di questi “tempi nuovi” che abbiamo voluto parlare con Robecchi, venuto qui in IBS per firmare le copie del suo libro. Come sempre, però, la nostra chiacchierata è andata ben al di là del suo romanzo… Tra citazioni di Rilke, riferimenti alle canzoni di Bob Dylan e una Milano a “quattro velocità”, ecco a voi Alessandro Robecchi e i suoi tempi nuovi!
Ciao Alessandro, raccontaci qualcosa del tuo ultimo libro, “I tempi nuovi”.
“I tempi nuovi” è il sesto episodio della saga di Carlo Monterossi, anche in questo caso circondato dai suoi amici investigatori e dai poliziotti Ghezzi e Carella. La solita banda in azione, insomma.
Ci sono due delitti, due piste all’inizio apparentemente molto diverse ma che presto si rivelano due filoni di una stessa indagine e che finiscono per intrecciarsi sullo sfondo di una Milano dei “tempi nuovi”.
Ma cosa sono questi “tempi nuovi”? Tutti i miei personaggi sono alla ricerca di una risposta e ognuno la trova a seconda della sua sensibilità e del suo posto nella società. Alla fine, però, nessuno di loro ne esce particolarmente rinfrancato. Ghezzi – il mio poliziotto preferito – sintetizza affermando: “Sono tempi in cui i ‘… perché no?’ sostituiscono i ‘… perché no!’”, tempi – aggiungo – in cui gli imperativi morali ed etici si sfarinano e tutto sembra possibile. Nel bene e nel male.
Lo stesso Ghezzi – insospettabile – cita Rilke: "L'aria nuova entra in te prima che te ne accorga"…
Già, cita anche Rilke, il mio Ghezzi, rivelando doti insospettabili per un poliziotto di basso rango come lui… Ma i tempi nuovi sono un fiume in cui siamo tutti immersi. C’è chi ci sta bene, chi affonda, chi si salva a stento. Il confine tra bene e male è sempre più labile, le tentazioni diventano sempre più irresistibili, i “perché no” – come dicevamo – più flebili e se c’è ancora qualcuno che resiste, c’è anche chi, come Carlo e l’amata Flora, si adegua.
In televisione, ad esempio, non va più bene gettare benzina sul fuoco, mostrare morti in diretta, dividere tra buoni e cattivi. Sono tempi nuovi anche per il giornalismo: più sfumature, pensieri più complessi, meno sangue.
I tempi nuovi sono un fiume in cui siamo tutti immersi. C’è chi ci sta bene, chi affonda, chi si salva a stento. Il confine tra bene e male è sempre più labile.
Da frequentatore degli ambienti del giornalismo e della televisione: è davvero cambiata la linea?
È cambiata o comunque cambierà. Credo che l’immagine dello straniero e la situazione del crimine così come sono presentate dalla televisione – più vere del vero, più agghiaccianti del vero – è ciò che ha fatto sì che nella pancia del paese sia emersa la paura del diverso. La prossima tendenza sarà quella di troncare, di riportare tutto a toni meno esagerati. Non tanto per una scelta etica ma perché in questo momento, per le forze che hanno vinto, non è più opportuno spaventare. È il momento di tornare alla normalità. Una tendenza che si incomincia a vedere nei media mainstream.
Quando Monterossi ti sarà venuto a noia e vorrai sbarazzartene, come Conan Doyle fece con Sherlock Holmes, da dove lo precipiterai? Dal Pirellone o dalla torre di Piazza Gae Aulenti?
Ho pensato anche io, in effetti, a come sistemarlo, ma non è ancora il momento. Credo che lo terrò in vita finché non arriverò a detestarlo. Non sono sicuro, però, che Monterossi meriti una morte “eroica”. Lui stesso ha costruito la sua fortuna sull’essere normale. Non è un poliziotto o un carabiniere, ma una persona come noi. Niente di eclatante per lui, quindi: né Duomo, né Pirellone.
I testi di Bob Dylan, per Monterossi, possono essere consultati come il Pentateuco per un fedele. Stavolta ci accompagna una canzone forse poco conosciuta, “Brownsville Girl”, scritta insieme al drammaturgo Sam Shepard.
Bob Dylan c'è sempre, nei miei romanzi. È come Shakespeare. È come la Bibbia. Ci sarà sempre una sua frasetta che parla di amore, di abbandono o di sentimenti meglio di come potremmo fare io o il Monterossi. “Brownsville Girl”, in particolare, è una canzone minore, di un periodo non molto fortunato di Dylan. È una canzone lunghissima, in cui si parla di due donne molto diverse tra loro. Una canzone perfetta per la protagonista femminile del mio romanzo, un personaggio ambiguo, che mente, che dice delle cose ma probabilmente ne pensa delle altre.
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Piovono pietre. Cronache marziane da un paese assurdo
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Ognuno muore solo
Hans Fallada

Berlin Alexanderplatz
Alfred Döblin
È d'obbligo una domanda a proposito di Milano, la cornice nella quale sono ambientate le storie di Monterossi. Questa volta bordeggi delle zone che furono di Testori, tenendo però come contrappunto la Milano del cambiamento. È una città a due velocità la tua Milano?
Una città a tre, quattro velocità. Milano è una città complicata da vivere e da raccontare. In questo libro, poi, per la sua struttura di “caccia al tesoro”, i luoghi sono particolarmente importanti. Soprattutto a livello della semi-periferia milanese. Non ancora città satellite, non ancora hinterland. Una Milano molto interessante da narrare, dove l'immigrazione è ormai integrata e vive gomito a gomito con la media e piccola borghesia. Una Milano alternativa sia alla città del design, del Quadrilatero della Moda e degli alti redditi, sia alla periferia degradata. Una città mediana dove tutte le Milano convivono.
Ma non è solo questa la città di cui parlo in “I tempi nuovi”: c’è anche una Milano “sotterranea”, quella città nascosta che produce un PIL occulto di scommesse clandestine, prostituzione e droga, quella città che a volte emerge anche grazie alle persone normali.
Toglici una curiosità, chi è Roberto Giallo?
Una bella domanda che non mi sarei mai aspettato… A un certo punto della mia carriera, all’età di 22 anni, ho incominciato a scrivere di musica contemporaneamente per “Il Mucchio Selvaggio”, uno storico e glorioso mensile, e per “L'Unità”. Ho dovuto scegliere uno pseudonimo, che ho tenuto per tanti anni, anche perché era diventato molto letto e non potevo quasi più scapparne. Adesso non è più un mistero, ma è l’unico falso nome che ho usato. Lo giuro.
Prima di concludere, ti va di lasciarci qualche consiglio di lettura?
Difficilmente leggo delle novità. In questo momento sto rileggendo per l’ennesima volta i libri di Hans Fallada, soprattutto “Ognuno muore solo”, perché sto lavorando a un racconto che in qualche modo lo coinvolge.
E poi negli ultimi mesi ho letto e riletto “Berlin. Alexanderplatz” di Alfred Döblin, uno dei più bei romanzi che mi sia mai capitato di leggere. Non è una lettura molto agevole, ma è un libro che amo moltissimo. Anche perché mentre scrivevo “I tempi nuovi” avevo bisogno di pagine che mi trasmettessero un ritmo urbano, movimenti cittadini, continui, quasi futuristi, proprio come quelli che si trovano nel testo di Döblin.
Alessandro Robecchi scrive per vari giornali, per la tv e il teatro. È stato editorialista di "Il manifesto" e una delle firme di "Cuore". È tra gli autori degli spettacoli di Maurizio Crozza. È stato critico musicale per "L’Unità" e per "Il Mucchio Selvaggio". In radio è stato direttore dei programmi di Radio Popolare, firmando per cinque anni la striscia satirica "Piovono pietre" (Premio Viareggio per la satira politica 2001). Ha fondato e diretto il mensile gratuito «Urban». Attualmente scrive su "Il Fatto Quotidiano", "Pagina99" e "Micromega". Ha scritto: "Manu Chao, musica y libertad" (Sperling & Kupfer, 2001) tradotto in cinque lingue, e "Piovono pietre. Cronache marziane da un paese assurdo" (Laterza, 2011). Il suo primo romanzo, "Questa non è una canzone d'amore" (Sellerio), è uscito nel 2014, sono seguiti (per lo stesso editore) "Dove sei stanotte" (2015), "Di rabbia e di vento" (2016), "Torto marcio" (2017), "Follia maggiore" (2018) e "I tempi nuovi" (2019).