Intervista a Mario Calabresi
«Sono anni che mi interrogo sul giorno dopo. Sappiamo tutti di cosa si tratta, di quel risveglio che per un istante è normale, ma subito dopo viene aggredito dal dolore».

La mattina dopo
Mario Calabresi
Quella di Mario Calabresi è una firma che negli anni si è fatta largo nel concitato panorama del giornalismo italiano. Dalla gavetta come cronista – ha raccontato, fra l’altro, l’11 settembre 2001 come inviato da New York – alla direzione delle principali testate nazionali, Calabresi ha saputo esprimere nel suo lavoro le migliori qualità di un giornalismo attento all’attualità ma sempre consapevole delle tante complessità che raccontare il mondo comporta oggi. Il suo esordio di scrittore è stato nel segno dell’autobiografia, e con Spingendo la notte più in là (Mondadori, 2017) la drammatica vicenda privata della famiglia Calabresi, ha trovato una composizione in pubblico che fino a quel momento le era stata negata, riuscendo a offrire un risarcimento non solo alla propria storia ma anche a quella di tutte le famiglie delle vittime del terrorismo. Oggi Calabresi torna a raccontare di rinascite e resilienza, allargando lo spettro della sua indagine e raccogliendo storie straordinarie di persone normali. Nella capacità di rialzarsi in seguito a un evento catastrofico e dandosi la possibilità di assistere a una nuova alba, ci sono tutta la forza e il senso di vivere La mattina dopo.
Quando nasce l’esigenza di raccogliere e raccontare queste storie?
Sono sempre stato affascinato dalle storie della mattina dopo. Da giornalista non ho mai amato raccontare la cronaca dell’immediato e nemmeno le balconate dei potenti che festeggiano. Mi ha sempre affascinato raccogliere i cocci dei perdenti usciti da una porta secondaria senza l’auto blu. Ho sempre trovato più intrigante questo aspetto. Anche in occasione dell’undici settembre. I miei colleghi correvano ground zero a scrivere gli stessi articoli mentre io raccoglievo altre storie. Ho osservato il contorno, dal bambino che andava al funerale del padre pompiere alla cattedrale di San Patrizio, alle cornamuse che suonavano per i caduti di origine irlandese. Ho raccontato del portinaio che metteva tutti i giorni fiori freschi nella cassetta della posta di una ragazza di cui non hanno mai nemmeno ritrovato il corpo tra le macerie della torre nord. Era da tanto tempo che volevo scrivere questo libro per raccontare queste storie. Quando ho lasciato la direzione di "la Repubblica" ho trovato il momento giusto nel mio giorno dopo.
Qual è il tema centrale dell’opera?
Senza dubbio la resilienza. Sono andato a cercare storie che avessero a che fare con delle rotture e dei nuovi inizi. Volevo capire se fossero unite da un fil rouge, da una soluzione comune che permettesse di guardare avanti e di non fermarsi. Se ci si ferma nel rimpianto si rischia di perdersi.
«Non serve a nulla rimpiangere quello che si è perso, bisogna provare a guardare oltre, concentrarsi su quello che abbiamo ancora e su cosa possiamo ancora fare».
C’è una storia contenuta nel suo libro a cui è particolarmente affezionato?
La storia che mi sta più a cuore è quella di Daniela detta la “garagista”. Daniela gestisce un garage di automobili ed è appassionata di moto e di canottaggio. Una sera mentre torna a casa una macchina fa un’inversione improvvisa e lei cade dalla sua moto. Daniela sì rende conto che qualcosa non va, che perderà l’uso delle gambe. Capisce che la sua vita non sarà mai come prima ma si concentra su tutto quello che le rimane. Uscire con le amiche per una birra, lavorare, andare in canoa grazie a degli accorgimenti specifici. Daniela ci insegna che non serve a nulla rimpiangere quello che si è perso, bisogna provare a guardare oltre, concentrarsi su quello che abbiamo ancora e su cosa possiamo ancora fare.
Quale qualità deve avere un buon giornalista oggi?
Per me la qualità migliore è la curiosità. Bisogna farsi domande su tutto e non dare per scontato niente. I dubbi sono molto importanti per non darsi pace e trovare le domande giuste. Viviamo in un mondo costellato di fake news, e un buon giornalista deve imparare a dubitare di qualunque notizia, di chi sta dietro a quelle informazioni. Serve un grande senso critico e questo vale sia per i giornalisti che per i cittadini. Dobbiamo perdere dieci secondi per capire se le notizie che ci arrivano sono vere o false, io per esempio se mi arriva una news “copia incolla” da whatsapp ne dubito sempre, da chiunque mi arrivi.
Per Eugenio Montale il mestiere del giornalista era considerato come un secondo lavoro perché si riteneva un poeta, lei come si considera?
Io non mi ritengo uno scrittore tout court, piuttosto un giornalista che scrive libri. Ma non mi ritengo nemmeno un giornalista che rincorre e commenta al volo l'ultimo fatto accaduto. Per me il giornalismo è un punto di contatto con la scrittura, è la ricerca costante del motivo per cui le cose accadono e delle conseguenze che comportano. Non apprezzo il giornalismo del tempo reale ma quello del giorno dopo, quando le telecamere sono spente e i flash non ci sono più. Quello è il momento di bussare alle porte e cercare di capire cosa è successo e quali sono state le ripercussioni.
«Dobbiamo perdere dieci secondi per capire se le notizie che ci arrivano sono vere o false, io per esempio se mi arriva una news “copia incolla” da whatsapp ne dubito sempre, da chiunque mi arrivi».
Dopo dieci anni alla direzione de “La Stampa” e “la Repubblica”, le manca il lavoro di redazione?
Non posso negare di avere un po’ di nostalgia. I primi giorni mi mancava l'adrenalina delle scadenze ma adesso ho capito che se ne può fare a meno, si può vivere anche senza. Sto facendo fatica a rinunciare, invece, al confronto, quel momento in cui il giornale era ormai chiuso e ci scambiavano opinioni. Quando il gruppo è affiatato le dinamiche sociali che nascono arricchiscono ogni persona.
Ci consiglia qualche lettura?
Ho appena terminato di leggere I ragazzi della Nickel di Colson Whitehead. È un libro molto duro ma affascinante. Parla della stagione dei diritti civili negli Stati Uniti e il protagonista è un ragazzino afroamericano. Sono rimasto impressionato dalla storia, un conto è studiare gli eventi, un conto è immedesimarsi in un ragazzino nero e capire attraverso i suoi occhi quanto fosse disdicevole la segregazione razziale. È un libro formidabile.
Per approfondire

Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia...
Mario Calabresi

Due milioni di baci
Alessandro Milan

Ci salveremo. Appunti per una riscossa civica
Ferruccio De Bortoli

Resilienza. Andare oltre: trovare nuove rotte senza...
Sergio Astori

I ragazzi della Nickel
Colson Whitehead
Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi, si iscrive al corso di laurea in Giurisprudenza presso l'Università Statale di Milano, e successivamente a quello in Storia. Frequenta l'Istituto per la formazione al giornalismo "Carlo de Martino" di Milano. Nel 1998 è all'ANSA come cronista parlamentare, nel 1999 passa a "la Repubblica", nella redazione politica. Dal 2000 al 2002 è a "La Stampa", per la quale, da inviato speciale, racconta gli attentati dell'11 settembre 2001. Nel 2002 torna a "la Repubblica", come caporedattore centrale vicario, e dal 2007 è corrispondente per il giornale da New York, da dove racconta la campagna elettorale presidenziale del 2008. Il 22 aprile 2009, a 39 anni, è nominato direttore de "La Stampa" in sostituzione di Giulio Anselmi. È autore di Spingendo la notte più in là (Mondadori, 2007), libro dedicato alle vittime del terrorismo. Nel 2002 - insieme a Francesca Senette e Andrea Galdi - è stato insignito del premio Angelo Rizzoli per il giornalismo, e nel 2003 riceve il premio intitolato a Carlo Casalegno. È sposato con Caterina Ginzburg, nipote di Natalia Ginzburg, e ha due figlie.